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Linfoma di Hodgkin: cos’è e quali sono i sintomi

Il linfoma di Hodgkin è un tumore raro che interessa il sistema linfatico. Colpisce in prevalenza i giovani tra i 20 e i 30 anni e gli anziani sopra i 70 anni. Ha un’incidenza del 5% sul totale dei casi di tumore diagnosticati e interessa soprattutto gli uomini.

I soggetti più a rischio sono coloro con una storia familiare di malattia, ma anche i fattori ambientali hanno un loro ruolo. Coloro infettati dalla mononucleosi infettiva, ad esempio, sono più a rischio della media. Lo stesso vale per quanti soffrono di malattie autoimmuni e quanti stanno seguendo terapie con farmaci antirigetto.

Esistono due macro categorie di tumore: il linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare, il 5% dei casi; il linfoma di Hodgkin classico, il 95% dei casi. La variante classica presenta a propria volta dei sottotipi:

  • A sclerosi nodulare: colpisce soprattutto i giovani adulti e comprende il 60% dei casi;
  • A predominanza linfocitaria: comprende solo il 5-10% dei casi;
  • A cellularità mista: interessa le persone anziane e comprende il 15-30% dei casi;
  • A deplezione linfocitaria: è il meno comune con solo l’1% dei casi ed tipico dei più anziani.

Poiché colpisce il sistema linfatico, il linfoma di Hodgkin può comparire in diversi organi, anche se spesso ha origine nella parte alta del corpo. Il più frequente è infatti l’ingrossamento dei linfonodi della regione cervicale. L’ingrossamento in sé può essere legato a un gran numero di cause, quindi da solo è poco indicativo. Acquista un peso maggiore se accompagnato da febbre costante, sudorazione notturna, perdita di peso, prurito diffuso.

In presenza di sintomi, il compito del medico è analizzare la storia clinica del soggetto e della famiglia. Segue l’analisi dei sintomi e, se necessario, ulteriori esami di approfondimento. Tra questi c’è anche la biopsia dei linfonodi, per individuare eventuali cellule tumorali. Nel caso in cui l’esito fosse positivo, si proseguirà con radiografie e risonanze per verificare l’estensione del tumore.

Il trattamento del linfoma di Hodgkin dipende in gran parte dal tipo di malattia e dall’età del paziente. Si agisce in gran parte mediante chemioterapia e radioterapia. In caso di recidiva, può essere necessario il trapianto di cellule staminali.

Fonte: airc.it

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Nuove linee guida per i test genetici per il cancro alla prostata

Esistono poche linee guida sul tipo di approccio da seguire nel caso dei test genetici per il rischio di cancro alla prostata. Un team di esperti ha deciso di ovviare al problemi. I ricercatori ritrovatisi al Sidney Kimmel Cancer Center (SKCC) presso la Thomas Jefferson University hanno stilato una serie di raccomandazioni a riguardo.

Sempre più studi provano l’esistenza di fattori genetici ereditari alla base del cancro alla prostata. I test genetici possono fornire agli uomini e alle loro famiglie le informazioni necessarie per prevenire questo rischio. Nel caso in cui la malattia si manifestasse, inoltre, sono una guida per individuare i trattamenti migliori.

Si calcola che circa il 10-15% dei casi di cancro alla prostata abbiano una base ereditaria. Alcune delle anomalie genetiche causa del tumore sono state identificate e sono individuabili mediante test genetici. Ecco perché, in caso di sospetta familiarità, è importante richiedere una consulenza genetica ad hoc. Urologi, medici di famiglia e oncologi sono però i primi a dover dare tutte le informazioni necessarie a riguardo. Ciò rende necessarie delle linee guida, così da fornire tutta la guida di cui i pazienti hanno bisogno.

Le linee guida mirano a fornire dei consulti sempre più precisi, così da affrontare anche situazioni difficili. I risultati dei test genetici per il rischio di cancro alla prostata, infatti, possono influenzare intere famiglie. Una eventuale familiarità ereditabile di cancro alla prostata riguarda non solo chi fa il test, ma anche i suoi figli, fratelli e genitori.

L’iniziativa del SKCC ha coinvolto oltre 70 esperti tra urologi, genetisti, oncologi.  Tra questi c’erano anche ginecologi ed esperti del cancro al seno, oltre che studiosi di bioetica. Tutti insieme hanno stilato le seguenti raccomandazioni:

  • Gli urologi sono spesso i primi a diagnosticare il cancro alla prostata. Sarebbe loro compito scavare nella storia del paziente, individuando eventuali tumori nella famiglia materna e paterna. Non solo i casi di tumore alla prostata, ma anche quelli al seno, alle ovaie e altri potrebbero essere collegati a una predisposizione genetica. Questo potrebbe aiutare altri membri della famiglia a elaborare strategie di prevenzione.
  • È importante diffondere maggiori informazioni sui test genetici. In particolare, bisognerebbe informare i soggetti a rischio di predisposizione genetica.
  • I test genetici oggi in commercio testano le varianti di 10-14 geni specifici per il rischio di cancro alla prostata. Dal punto di vista clinico, è meglio soffermarsi su determinati sottoinsiemi di geni. Ad esempio, i risultati dei test BRCA sono clinicamente rilevanti: molti uomini con il cancro alla prostata mostrano infatti anomalie a questi geni. In presenza di tali mutazioni, anche il tumore si comporta in maniera differente.

Fonte: jefferson.edu

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Nuovo farmaco per fermare la degenerazione dei reni

Quale che sia la loro causa, le malattie progressive dei reni portano sempre a una progressiva distruzione delle loro funzioni. A volte sono provocate da obesità o ipertensione, altre sono sintomo di una malattia genetica. I ricercatori del Broad Institute del MIT e di Harvard hanno scoperto un nuovo farmaco per fermare questa degenerazione. La scoperta potrebbe evitare la dialisi a milioni di persone.

Per il momento ci sono poche opzioni terapeutiche per chi soffre di malattie degenerative dei reni. I pazienti che si sottopongono a trapianto spesso soffrono di complicazioni. Molti di loro devono convivere per anni con la dialisi, se non per tutto il resto della loro vita. Tutto ciò ha conseguenze sia sul lavoro e sulla vita privata di queste persone.

I ricercatori hanno affrontato il problema dal lato biologico della malattia genetica. Hanno individuato i geni e le proteine coinvolte nella degenerazione dei reni. In particolare, si sono concentrati su cosa provoca la morte dei podociti, le cellule “filtro” dei reni. Quando non funzionano, le proteine cominciano a passare dal sangue all’urina.

Lavori precedenti avevano individuato una proteina chiamata Rac1 come causa di alcune malattie dei reni. Il nuovo studio rivela che Rac1 attiva una proteina chiamata TRPC5, che provoca l’afflusso di calcio nei podociti e li distrugge. I ricercatori hanno quindi sviluppato un farmaco che blocca il processo, basato su una molecola chiamata AC1903.

In cavie affette da malattie progressive dei reni, AC1903 ha protetto le cellule filtro e bloccato la degenerazione. La molecola ha dato buoni risultati anche sui soggetti in fase avanzata della malattia, ripristinando parte delle funzioni. Secondo lo studio, il farmaco funzionerebbe sia sui danni provocati da malattie genetiche sia su quelli da ipertensione.

Fonte: broadinstitute.org

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Atassia di Friedreich: cos’è e quali sono i sintomi

L’atassia di Friedreich è una malattia genetica rara che provoca la degenerazione progressiva del sistema nervoso. Colpisce in particolare midollo spinale e cervelletto, provocando la mancanza di coordinazione dei movimenti, l’atassia appunto. Di solito si manifesta durante l’infanzia o l’adolescenza, ma in alcuni casi compare anche in età adulta.

I primi sintomi dell’atassia di Friedreich sono problemi di equilibrio e di coordinazione. Questi rendono difficile scrivere, mangiare e compiere altre attività molto semplici. Con il tempo anche camminare diventa impossibile, costringendo chi ne soffre sulla sedia a rotelle. Sono frequenti anche problemi cardiaci e diabete.

Le cause dell’atassia di Friedreich risiedono nelle alterazioni del gene che codifica la proteina fratassina. Una sequenza di tre nucleotidi di DNA viene ripetuta molte più volte del normale, bloccando le funzioni di tutto il gene. Ciò provoca quindi la mancata codifica della fratassina, con conseguente deficit causa dei sintomi della malattia.

La trasmissione avviene mediante modalità autosomica recessiva: se entrambi i genitori sono portatori di una copia mutata del gene, il figlio avrà il 25% delle probabilità di essere malato. Spesso nessuno dei due partner sa di essere portatore sano, il che rende complicato effettuare una diagnosi prenatale.

La diagnosi si basa sull’osservazione dei sintomi, su esami come l’elettromiogramma e sul test genetico. Quest’ultimo serve a individuare i difetti genetici di cui sopra. Una volta ricevuto esito positivo, però, c’è molto poco da fare. Ad oggi non esistono cure risolutive per l’atassia di Friedreich.

Fonte: telethon.it

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