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Aurora magazine

Sindrome di Rett: sintomi in regressione nei modelli

La sindrome di Rett è una malattia genetica devastante. Provoca disordini a livello motorio e comportamenti dello stampo autistico. Gli studiosi della Case Western Reserve University School of Medicine hanno forse trovato una soluzione. Stanno infatti lavorando per ripristinare le funzioni cerebrali e far regredire almeno parte dei sintomi. Un metodo in particolare pare aver funzionato su alcuni modelli animali.

I ricercatori hanno scoperto che la corteccia prefrontale ha un ruolo rilevante in alcune anomalie cognitive e respiratorie. Nelle cavie con il difetto genetico causa della sindrome di Rett, questa zona era quasi inattiva. Mancava, infatti, di una stimolazione adeguata da parte delle altre cellule nervose. Secondo i ricercatori, questa scarsa attività potrebbe essere la causa di alcuni sintomi della sindrome di Rett.

Per testare la loro ipotesi, gli scienziati hanno attivato i neuroni della corteggia prefrontale. I topi così trattati hanno ricominciato a respirare in modo normale. Hanno, inoltre, recuperato parte della memoria a lungo termine. È bastata una molecola per far sparire quasi del tutto i sintomi più gravi della sindrome di Rett nei topi. Una volta ristabilita l’attività normale, il cervello è risultato relativamente in salute e le cavie hanno mostrato un netto miglioramento.

Si tratta di una prima scoperta, che però suggerisce un possibile trattamento anche per gli esseri umani. Inoltre, la stessa procedura potrebbe essere applicabile anche ad altre regioni del cervello. Potrebbe quindi beneficiarne sia chi soffre di sindrome di Rett sia chi soffre di una malattia dello stesso spettro.

Fonte: case.edu

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Identificato nuovo marker per la sindrome di Hutchinson-Gilford

La sindrome di Hutchinson-Gilford o progeria è una malattia genetica fatale che provoca l’invecchiamento precoce. Un team guidato dalla dottoressa Leslie B. Gordon ha identificato una proteina marker che potrebbe aiutare a scegliere i trattamenti migliori.

La progeria colpisce circa 1 bambino ogni 8 milioni. Chi ne soffre sembra sano alla nascita, ma mostra problemi nello sviluppo entro il primo anno di età. In uno studio precedente, il team della dottoressa Gordon aveva testato gli effetti della proteina lonafarnib, usata di solito contro il cancro. Usata per 2 anni aveva aiutato i pazienti a guadagnare peso, ridotto il rischio di attacco cardiaco e i mal di testa tipici della malattia.

Nonostante i buoni risultati dello studio, persisteva un problema. Mancavano biomarcatori che indicassero l’efficacia del trattamento ed eventuali problematiche prima che si manifestassero. Per questo motivo, i ricercatori hanno cercato una proteina marker per la Hutchinson-Gilford. In questo modo sarebbe stato più facile misurare i progressi dei pazienti e capire se c’erano cambiamenti da fare.

I ricercatori sono partiti dai campioni di sangue di 24 pazienti tra i 3 e i 12 anni. Al tempo dello studio rappresentavano circa il 10% dei soggetti affetti dalla malattia. I campioni sono stati presi prima e dopo il trattamento con lonafarnib e confrontati con quelli di alcuni bambini sani. Gli scienziati hanno usato uno strumento chiamato RBM HumanMAP per misurare i livelli di circa 90 proteine.

I risultati hanno mostrato profonde diverse tra bambini sani e malati in più del 40% delle proteine. Tutte queste potrebbero essere possibili biomarker per la malattia, da usare per studi e trattamenti. Un grande passo in avanti nella lotta contro questa malattia ancora fatale, che potrebbe aiutare anche nella lotta contro malattie più comuni.

Fonte: springer.com

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Un’equazione secolare per interpretare i test genetici di oggi

I ricercatori del Huntsman Cancer Institute (HCI) hanno sviluppato un nuovo modo per interpretare i risultati dei test genetici. Il merito è anche del Teorema di Bayer, un’equazione matematica risalente al 1763. I ricercatori l’hanno usata come base per sviluppare il nuovo metodo di valutazione.

I test genetici sono usati in una vasta gamma di ambiti. Si va dai test del DNA fetale per la diagnosi prenatale fino ai trattamenti contro il cancro. I risultati dei test possono aiutare a ottenere diagnosi più precise e a sviluppare trattamenti ad hoc per il singolo paziente. A seconda di cosa dice un test genetico, il trattamento per la stessa malattia può cambiare in maniera importante.

Una delle grandi sfide di oggi è capire quali variazioni genetiche contano e quali possono essere ignorate. Nel corso degli anni si sono infatti accumulate migliaia di VUS, ovvero variazioni genetiche il cui significato è poco chiaro. Gran parte di queste sono quasi sicuramente innocue, ma molte altre potrebbero essere determinanti per lo sviluppo di una malattia.

In modo da ridurre la soggettività di certe interpretazioni, il team ha sviluppato un algoritmo che analizza i risultati dei test genetici. Lo strumento serve a determinare il tasso di rischio che un paziente sviluppi una certa malattia. Per verificarne l’efficacia, l’hanno testato secondo 18 regole raccomandate dall’American College of Genetics and Genomics (ACMG). I risultati sono stati positivi e il nuovo strumento ha dimostrato di poter rendere le diagnosi più precise.

Fonte: utah.edu

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Epilessia e depressione hanno la stessa causa genetica

In alcune persone, epilessia e depressione condividono la stessa causa genetica. Lo affermano i ricercatori della Rutgers University-New Brunswick e della Columbia University. La scoperta potrebbe aiutare a migliorare i trattamenti, alzando la qualità della vita dei pazienti.

Gli scienziati hanno studiato dozzine di famiglie con soggetti affetti da epilessia. In particolare, hanno analizzato il tasso di disturbi dell’umore e l’hanno comparato con quello medio negli Stati Uniti. Hanno scoperto che le persone affette da epilessia focale sono più soggette a queste malattie. Tra coloro che soffrono di epilessia generalizzata, invece, il tasso di depressione rimane lo stesso.

L’autore principale dello studio, Gary A. Heiman, denuncia la tendenza a sottovalutare i disturbi dell’umore tra gli epilettici. La ricerca prova invece la necessità di controlli più accurati, specie tra quanti soffrono di epilessia focale. Queste persone dovrebbero ricevere trattamenti ad hoc sia per l’epilessia sia per la depressione.

È probabile che ci sia un legame genetico tra epilessia focale e depressione. I risultati di questo studio supportano la tesi, ma non sono i soli. È dai tempi di Ippocrate che i medici prendono nota di una maggiore propensione alla “melanconia” tra quanti soffrono di epilessia. Ciononostante, è ancora poco chiaro quali siano i geni coinvolti in entrambe le malattie.

Fonte: rutgers.edu

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