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Malattia di Sandhoff: cos’è e come si manifesta

La malattia di Sandhoff è una malattia genetica che provoca la progressiva distruzione delle cellule di cervello e midollo spinale. La forma più comune e grave compare nella prima infanzia, tra i 3 e i 6 mesi di età. Altre forme meno gravi e molto più rare si manifestano invece durante l’adolescenza e l’età adulta.

La causa della Sandhoff è una mutazione del gene HEXB, che provoca un deficit degli enzimi esosaminidasi A e esosaminidasi B. I due enzimi dovrebbero stare dentro i lisosomi, le strutture che si occupano dello smaltimento delle sostanze tossiche. Il loro malfunzionamento porta quindi a un progressivo accumulo di gangliosidi nel cervello, provocando la morte dei neuroni.

La malattia provoca la degenerazione delle cellule di cervello e midollo spinale. Per questo motivo, chi ne è affetto soffre di disabilità intellettuali e motorie, oltre che della perdita di vista e udito. I bambini con la malattia di Sandhoff hanno fegati troppo sviluppati, malformazioni ossee e infezioni respiratorie.

Affinché la malattia si manifesti, entrambi i genitori devono essere portatori del gene mutato. Di solito i portatori sani non mostrano alcun sintomo, il che rende necessario ricorrere ad appositi test. Chi ha avuto casi in famiglia, può sottoporsi a un test genetico per verificare se è o meno portatore. In caso di esito positivo per entrambi i partner, è possibile ricorrere alla fecondazione in vitro insieme a test genetici pre-impianto.

Fonte: rarediseases.info.nih.gov

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Dettagli determinanti sullo sviluppo della malattia di Sandhoff

I ricercatori hanno fatto un passo avanti nello sviluppo di una terapia genica contro la malattia di Sandhoff. Uno studio guidato dalla dottoressa Laura Allende ha infatti rivelato che la malattia potrebbe comparire già nel grembo materno.

La malattia di Sandhoff provoca l’accumulo di gangliosidi, causando la morte delle cellule di cervello e midollo spinale. La dottoressa Allende voleva capire se il processo inizia addirittura durante lo sviluppo fetale. Infatti, i primi sintomi spesso compaiono poco dopo il parto. Per questo motivo, il team della dottoressa ha esaminato le cellule staminali pluripotenti indotte di alcuni pazienti.

I ricercatori hanno creato delle cellule staminali sane usando la Crispr/Cas9, da usare come gruppo di controllo. Per farlo, hanno corretto il gene difettoso presente nelle cellule dei pazienti stessi. In questo modo hanno ottenuto due gruppi di cellule staminali, che si sono sviluppati in mini cervelli. Il primo era sano e il secondo affetto dalla malattia di Sandhoff.

Le osservazioni hanno rivelato accumuli di gangliosidi nel mini cervello malato, non presenti nell’altro. Inoltre, hanno rilevato un eccesso di nuove cellule che rendeva il cervello malato molto più grande. Secondo i ricercatori, la colpa potrebbe essere di alcuni geni responsabili della maturazione cellulare. Le cellule staminali malate invece di differenziarsi avevano continuato a crescere.

La colpa della mancata differenziazioni potrebbe essere degli accumuli di gangliosidi. La cosa rimane però ancora da determinare. Intanto, lo studio ha mostrato come distruggere i gangliosidi possa interessare lo sviluppo del cervello fetale. I ricercatori hanno introdotto il gene corretto nei mini cervelli vecchi di 4 settimane. Dopo 2 settimane, i cervelli erano di grandezza quasi normale e non avevano più accumuli di gangliosidi.

Fonte: asbmb.org

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L’importanza del consulto informato per i test genetici

I ricercatori dell’Università di Sydney hanno analizzato come le persone si approcciato ai test genetici. È emerso che alcuni pazienti ad alto rischio di malattie cardiache non avevano compreso l’impatto dei risultati sulle proprie vite. Ciò conferma quanto sia importante richiedere un consulto informato con uno specialista prima e dopo un test genetico.

I test genetici servono a valutare quante probabilità ci sono che una malattia si manifesti. Quelli più conosciuti riguardano i tumori, ma possono essere applicati anche a patologie cardiache come la cardiomiopatia ipertrofica. La malattia provoca un ispessimento delle pareti cardiache, che può portare a un improvviso attacco di cuore. I parenti di primo grado di chi ne soffre hanno il 50% delle probabilità di avere la stessa mutazione genetica.

Grazie ai test genetici, oggi è possibile individuare i portatori sani di cardiomiopatia ipertrofica. Queste persone non mostrano sintomi della malattia, ma sono comunque a rischio. Per questo motivo, il risultato positivo di un test genetico può essere sconvolgente per i più. Alcuni pazienti mostrano segni di ansia legati alla comparsa di eventuali sintomi. Molti smettono di fare attività fisica o mettono in discussione i piani per mettere su una famiglia.

I problemi in questione colpiscono soprattutto quanti non si rivolgono a uno specialista per interpretare i risultati. Al contrario, quanti cercano un consulto prima e dopo il test hanno molti meno problemi. Un buon genetista li può aiutare a comprendere come affrontare i risultati positivi del test. Li consiglia e dice loro in che modo è meglio affrontare la notizia.

Fonte: eurekalert.org

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L’editing genetico diventa più preciso con evoCas9

Un team dell’Università di Trento ha messo a punto una nuova tecnica di editing genetico. Si chiama evoCas9 ed è ancora più precisa della Crispr/Cas9. Secondo gli autori dello studio, questa tecnica renderà possibile correggere le alterazioni legate a malattie genetiche e tumori.

La molecola Cas9 usata per la Crispr modifica il gene che interessa e quello che vi sta intorno. In questo modo provoca delle mutazioni ulteriori difficili da prevedere, che potrebbero avere a loro volta conseguenze negative. Invece, la nuova tecnica sfrutta un enzima in grado di modificare solo il punto che interessa. Si potrebbe quindi sfruttare evoCas9 anche in settori non medici, come allevamento e agricoltura.

Il nome evoCas9 arriva dal processo che sta dietro lo sviluppo della molecola, simile all’evoluzione darwiniana. La molecola Cas9 nasce nei batteri ed è imprecisa per proteggere l’organismo contro tutti i DNA estranei. I ricercatori l’hanno quindi fatta evolvere nei lieviti, che sono cellule semplici ma più simili a quelle umane. Generazione dopo generazione, hanno selezionato le versioni più precise fino a ottenere il risultato desiderato.

Una volta ottenuta la versione di Cas9 ultra precisa, hanno sperimentato evoCas9 su cellule umane. Rispetto all’originale Crisp/Cas9, la nuova versione ha solo quattro amminoacidi diversi e un criterio di selezione del tutto diverso. Per sviluppare la tecnica di editing originale, i ricercatori statunitensi avevano fatto affidamento su degli algoritmi. I ricercatori italiani hanno invece fatto evolvere la loro molecola in vivo.

Fonte: repubblica.it

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