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Aurora magazine

Alla base della malattia di Charcot-Marie-Tooth c’è un enzima

La malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT) è un disturbo neurologico mutevole, che coinvolge più di 90 geni. Basta un’anomalia in uno solo di questi affinché la malattia si manifesti. Eppure, nonostante la quantità di anomalie coinvolte, i sintomi sono sempre gli stessi. Questo rende la comprensione dei meccanismi biologici coinvolti ancora più difficile. Uno studio guidato dal professor Xiang-Lei Yang potrebbe però aver gettato una nuova luce sul tutto.

Lo studio in questione analizza ciò che c’è in comune tra le diverse mutazioni genetiche. In particolare, si concentra su degli enzimi conosciuti come amminoacil-tRNA-sintetasi. Da quanto è emerso, sono la famiglia di proteine più ampia collegata alla CMT. Secondo i ricercatori, gli enzimi si diffonderebbero in tutto il corpo, attaccando gli amminoacidi e impedendo loro di produrre nuove proteine. Un duro colpo per l’organismo, che bloccherebbe la produzione di sangue, ormoni, ossa.

Per provare la teoria in questione, gli scienziati hanno prelevato dei campioni da un gruppo di pazienti. In questo modo hanno potuto osservare l’azione degli enzimi nel loro ambiente naturale. In un secondo momento, hanno affiancato degli enzimi sani a quelli mutati. Dopo averlo fatto, questi hanno recuperato le loro funzionalità. Ciò però non spiega del tutto il coinvolgimento degli enzimi mutati nella malattia. I ricercatori hanno quindi spostato l’attenzione sulla forma degli enzimi, piuttosto che sulle loro funzionalità.

Gli enzimi mutati hanno una forma diversa rispetto a quelli sani. Sono molto più ampi, con tanta superficie esposta. Ciò li potrebbe esporre a interazioni indesiderate con le proteine vicine, causando i sintomi della malattia. Adesso non resta che esaminare le diverse forme degli enzimi e approfondire la ricerca.

Fonte: scripps.edu

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Il gene EGFR aumenta la sopravvivenza in caso di tumore ai polmoni

Una mutazione nel gene EGFR aumenta il tasso di sopravvivenza nei malati di tumore ai polmoni. A 3 anni dalla diagnosi, il 28% dei pazienti trattati con osimertinib era ancora sotto trattamento. Numeri notevoli, se si considera il tasso di sopravvivenza medio di chi soffre di questo tipo di malattia.

Lo studio Flaura ha analizzato le risposte a osimertinib dei pazienti affetti da tumore al polmone non a piccole cellule. Lo studio si è concentrato sui casi di tumore localmente avanzato o metastatico, focalizzandosi sui soggetti con una mutazione nel gene EGFR. La mutazione riguarda il 30%-40% dei pazienti asiatici e il 10%-15% dei pazienti europei.

I soggetti con la mutazione di EGFR sono risultati particolarmente sensibili agli inibitori della tirosin chinasi. Gli inibitori bloccano le via di segnalazione cellulari, impedendo alle cellule tumorali di orientare la propria crescita. Il farmaco osimertinib è proprio un inibitore della tirosin chinasi e si basa su questo principio.

I pazienti del gruppo di controllo hanno mostrato una sopravvivenza media di circa 31,8 mesi. I pazienti trattati con il farmaco hanno raggiunto una media di 38,6 mesi. Inoltre, a 3 anni solo il 9% dei pazienti del gruppo di controllo era ancora in trattamento. Ciò dimostra l’efficacia del farmaco in questo tipo specifico di tumore in stadio avanzato, che colpisce solo in Italia circa 2.150 pazienti ogni anno.

Fonte: repubblica.it

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Il mancinismo deriva dai geni

Uno studio dell’Università di Oxford rivela perché alcune persone preferiscono la sinistra alla destra. Secondo i ricercatori, sarebbe a causa di alcune regioni genetiche che influenzano l’architettura del cervello. Inoltre, i geni del mancinismo potrebbero influenzare il modo in cui lavorano le aree del cervello dedicate al linguaggio.

Il ruolo del DNA nella scelta della mano dominante non è una novità: studi precedenti avevano attribuito il 25% della causalità ai geni. Ciononostante, era ancora poco chiaro quali fossero i geni coinvolti. Per questo motivo, il team del dottor Akira Wiberg ha esaminato i geni di 400.000 persone. Di queste, 38.332 erano mancine.

Dalle analisi sono emerse delle varianti genetiche comuni tra i mancini, collocate in quattro regioni genetiche diverse. Tre di queste codificano per proteine legate allo sviluppo del cervello, influenzando anche lo sviluppo dei microtubuli. Le strutture in questione sono tra gli elementi che determinano il modo in cui si svilupperanno le cellule del corpo.

In un secondo momento, i ricercatori hanno analizzato l’imaging cerebrale di circa 10.000 soggetti. Ciò ha permesso loro di esaminare le variazioni nella struttura del cervello dei mancini. Da quanto è emerso, in coloro che usano la sinistra i due emisferi comunicano meglio. Questo potrebbe facilitare i processi mentali legati al linguaggio, anche se per confermarlo serviranno ulteriori prove.

All’interno del campione esaminato, sono emerse anche delle differenze per quanto riguarda le probabilità di ammalarsi. I mancini hanno un rischio leggermente inferiore di ammalarsi di Parkinson e un poco superiore di schizofrenia.

Fonte: repubblica.it

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Si può combattere l’esofagite eosinofila con un test?

I ricercatori del Nemours Children's Health System hanno analizzato l’utilità di un semplice test genetico nel trattamento dell’esofagite eosinofila. Il test permetterebbe di individuare i bambini che rispondono a una particolare classe di farmaci, i PPI. In questo modo sarebbe possibile trattarli fin da subito nel modo migliore per loro.

L’esofagite eosinofila è un’infiammazione dell’esofago che provoca reazioni allergiche certi cibi. Al momento, il trattamento più usato prevede l’uso di PPI, inibitori della pompa protonica. Di solito li si utilizza per trattare le patologie collegate a problemi di acidità. Si calcola però che solo tra il 30% e il 60% dei pazienti affetti da esofagite eosinofila risponda al trattamento. Come individuarli in anticipo? Secondo gli autori dello studio, potrebbe bastare un test genetico.

I ricercatori hanno esaminato i tessuti ricavati da 92 pazienti tra i 2 e i 16 anni. I bambini con alcune varianti genetiche in comune avevano circa 9 volte le probabilità di non rispondere al trattamento. Inoltre, le varianti potrebbero influenzare la maggiore efficacia di certi dosaggi rispetto ad altri. Le varianti influenzerebbero infatti la produzione di determinati enzimi, che renderebbero più o meno difficile metabolizzare il farmaco.

I test genetici permetterebbero sia di decidere se somministrare o no i farmaci, sia in quali quantità. Senza i test, invece, i medici rischiano di prescrivere dosi troppo alte o troppo basse per il fabbisogno reale. Il prossimo passo sarà verificare l’effettiva efficacia dell’approccio su un numero maggiore di pazienti.

Fonte: eurekalert.org

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