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Aurora magazine

Sviluppato un test neonatale per l’adrenoleucodistrofia

Un team di ricercatori indiani ha sviluppato un test neonatale per misurare il rischio di adrenoleucodistrofia. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Clinica Chimica Acta e spiega come funziona il procedimento.

L’adrenoleucodistrofia è una malattia genetica causata da mutazioni nel gene ABCD1. Il malfunzionamento causa l’accumulo di molecole di grasso note come “acidi grassi a catena molto lunga”. Gli accumuli distruggono la mielina, la sostanza che protegge le cellule nervose, e danneggia le ghiandole surrenali.

La diagnosi di adrenoleucodistrofia parte dall’osservazione dei sintomi. Dopodiché, si procede con un’analisi del sangue che determina i livelli di acidi grassi e la gravità della malattia. Di solito i test identificano gli acidi grassi C26:0, C24:0 e C22:0. Inoltre, si possono cercare anche le molecole chiamate LPC, che si formano a causa degli accumuli. Entrambi i metodi sono troppo lenti per una larga diffusione dello screening.

Un team di ricercatori del National Institute of Mental Health and Neurosciences di Bengaluru ha creato un nuovo test neonatale. Il nuovo metodo di screening è più veloce ed efficiente, del tutto non invasivo. Bastano poche gocce di sangue secco per dire se il bambino è a rischio oppure no. Per confermarne l’affidabilità, i ricercatori hanno provato il test su 28 campioni di bambini malati e 282 di persone sane. Hanno inoltre confrontato i risultati con quelli ottenuti dai test precedenti.

Il metodo si è dimostrato efficace ed affidabile. Gli autori dello studio si augurano che il test sarà quindi usato su tutti i neonati ad alto rischio, per garantire loro una diagnosi precoce.

Fonte: adrenoleukodystrophynews.com

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Il bisfenolo A riduce il quoziente intellettivo?

Il bisfenolo A è una sostanza nota per i suoi effetti negativi sull’apparato endocrino. Gli scienziati sospettano che possa ridurre la conta spermatica negli uomini, rendendo più difficile avere figli. Uno studio della Icahn School of Medicine e della Karlstad University getta una nuova ombra sulla sostanza.

Gli scienziati hanno misurato i livelli di 26 sostanze chimiche nelle urine di 718 future mamme, durante il primo trimestre di gravidanza. Tra le sostanze c’era anche il bisfenolo A, contenuto nella plastica usata per le confezioni di plastica. I ricercatori hanno però trovato anche pesticidi e ftalati, tutte sostanze dannose per la salute. Alcune di queste danneggiano l’attività degli ormoni, proprio come il bisfenolo.

Dopo il parto, i ricercatori hanno seguito i bambini fino all’età di 7 anni. I bambini con il quoziente intellettivo inferiore erano quelli le cui mamme avevano livelli maggiori di sostanze chimiche nelle urine. Nel caso dei maschi, i risultati potevano scendere anche di 2 punti rispetto alla media. L’esposizione a certe sostanze potrebbe quindi danneggiare lo sviluppo fetale. Quel che è peggio è che potrebbe bastare anche un’esposizione minima.

Oltre al bisfenolo A, le sostanze più dannose potrebbero essere alcuni tipi di pesticidi e componenti di detersivi. Queste ultime sostanze vengono espulse quasi subito dall’organismo, eppure basterebbe un tempo minimo per danneggiare lo sviluppo embrionale. Di conseguenza, le donne nelle prime fasi della gravidanza dovrebbero evitare il più possibile il contatto con i composti chimici incriminati.

Fonte: mountsinai.org

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I geni determinano la fertilità e il rapporto tra maschi e femmine

Uno studio della Michigan Medicine prova che le probabilità di avere un maschio o una femmina non sono 50/50. Al contrario, ci sono dei geni che favoriscono la prole di un sesso o dell’altro, determinandone anche la fertilità. Questo quanto meno nelle cavie: serviranno altri studi per verificare se è così anche negli esseri umani.

Il sesso del nascituro viene determinato dai cromosomi X e Y presenti nei gameti. I ricercatori hanno esaminato i cromosomi di alcune cavie e hanno trovato dei geni legati solo ai cromosomi X. Approfondendo la cosa, hanno individuato copie multiple dei geni in questione. In modo da identificarne il ruolo, li hanno eliminati da un gruppo di cavie usando le tecniche di editing genetico.

I topi privi delle copie di questa famiglia di geni avevano più probabilità di avere cucciolate di maschi. In questi casi, il rapporto tra maschi e femmine era di circa 60-40. Ciononostante, la percentuale di spermatozoi portatori del cromosoma Y era sempre la stessa. La differenza era che questi ultimi nuotavano più velocemente e più dritti, guadagnando un notevole vantaggio sugli altri spermatozoi.

Dopo questo primo esperimento, il team ha cercato di aumentare la percentuale di femmine. A questo scopo, ha aumentato il numero di copie dei geni legati a X. Facendo questo, la percentuale di cuccioli femmina è in effetti passata al 60%. La famiglia di geni scoperta potrebbe quindi influenzare la velocità degli spermatozoi portatori di questo o di quel cromosoma. Ma c’è di più.

Secondo lo studio, i geni in questione potrebbero influenzare anche la fertilità maschile. Rimuovendo le copie del gene, infatti, i ricercatori hanno aumentato sia la percentuale di piccoli maschi sia i casi di infertilità. I piccoli privi dei geni erano infatti incapaci di produrre spermatozoi.

Fonte: med.umich.eu

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Le malattie genetiche rare stanno diventando una priorità

Un’analisi pubblicata sullo European Journal of Human Genetics prova che le malattie rare, anche genetiche, sono sempre più una priorità. Almeno dal punto di vista della salute pubblica. I dati raccolti da Orphanet stimano infatti che tra il 3,5% e il 5,9% delle persone soffra di malattie rare. I dati escludono tumori, virus, batteri e intossicazioni. Inoltre, tengono conto solo del 67,6% delle patologie rare conosciute; ciò significa che i dati sono in difetto.

Le malattie rare, genetiche e non, sono eterogenee e distribuite in tutto il mondo. Per molte di queste non esiste una cura e, in alcuni casi, nemmeno una terapia vera e propria. Sono in gran parte croniche e spesso portano alla morte. Perché? Perché i ricercatori hanno pochissimi dati epidemiologici su cui basare gli studi, che quindi sono scarsi. Senza contare che tante informazioni arrivano da fonti non standardizzate, il che rende ancora più difficile agire in maniera efficiente ed efficace.

Il database Orphanet aiuta, per quanto possibile. Ad oggi contiene più di 6.000 malattie rare identificate e classificate. Circa il 71,9% di queste è composto da malattie rare genetiche, di cui il 69,9% si manifesta alla nascita o nei primissimi anni. Nonostante la precocità dei sintomi, tante famiglie faticano a trovare un nome per queste malattie, che spesso rimangono senza diagnosi per anni.

La prevalenza delle malattie rare è squilibrata: 149 patologie colpiscono circa l’80% dei malati totali, con 1-5 casi ogni 10.000 persone. Ci sono però 241 patologie che hanno una prevalenza di 0,1-1 persone ogni 10.000, con quindi una percentuale prossima allo zero. Queste 400 malattie comprendono il 98% dei malati rari totali. Tutte le altre hanno una prevalenza che si aggira attorno a 1 caso per 1 milione di persone.

Lo studio ha lo scopo di far emergere i tanti malati ancora oggi invisibili, che pure rappresentano una fetta non indifferente della società.

Fonte: osservatoriomalattierare.it

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