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Aurora magazine

Migliorare la qualità degli spermatozoi mangiando: come?

Negli ultimi 50 anni c’è stato un netto calo nella fertilità maschile, con conseguenze negative anche a livello sociale. Secondo alcuni studi, l’alimentazione potrebbe avere un ruolo importante in tal senso. Il modo in cui mangiamo, infatti, potrebbe influenzare la qualità degli spermatozoi in un senso o nell’altro. È allora possibile aumentare la fertilità maschile con il cibo. Sì, anche se solo fino a un certo punto.

Circa il 40% dei casi di infertilità di coppia è attribuibile al maschio, eppure l’argomento è ancora poco trattato. Per ovviare al problema, è nato un test che misura la motilità degli spermatozoi e aiuta a migliorare lo stile di vita con una app. Cambiando alimentazione e aumentando la quantità di esercizio fisico, sarebbe possibile migliorare anche la qualità degli spermatozoi e aumentare le chance di una gravidanza.

Secondo i creatori della app, sarebbero in particolare 20 i cibi amici della fertilità. Gli autori in questione consigliano anche un regolare esercizio fisico e di ridurre l’uso della plastica. Secondo alcuni studi, infatti, le sostanze in essa contenute potrebbero alterare i livelli ormonali e ridurre la fertilità.

Migliorare lo stile di vita permetterebbe a tanti uomini di concepire naturalmente, senza dover ricorrere alla IVF. In altri casi, potrebbe aumentare le possibilità di successo delle tecniche di fecondazione assistita. Ciononostante, se ne parla poco: purtroppo l’infertilità maschile è ancora circondata da un grosso stigma sociale.

Fonte: express.co.uk

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Eseguito il primo censimento genetico del microbioma umano

I ricercatori della Harvard Medical School hanno per la prima volta mappato i geni del microbioma umano. Lo studio ci dà un’idea più precisa dei microrganismi presenti nel nostro corpo, fondamentali per la nostra salute eppure spesso ignorati.

Lo studio parte dai batteri che vivono dentro bocca e intestino, quelli più rilevanti e semplici da ottenere. Gli scienziati ne hanno analizzato il DNA, così da comprenderne le caratteristiche e il funzionamento. Da quanto emerso, oltre la metà di questi possiede un patrimonio genetico unico per ciascuno individuo. I batteri che vivono dentro di noi si caratterizzano quindi per un’enorme diversità genetica. La scoperta potrebbe aiutare a sviluppare nuove terapie personalizzate, che tengano conto della cosa.

Si tratta del primo censimento genetico del microbioma umano. Gli studi precedenti si erano concentrati solo sulle specie di microrganismi presenti nel nostro organismo. Lo studio in questione, invece, mette in luce le diversità genetiche che ci possono essere anche tra geni dello stesso tipo. Differenze che potrebbero avere conseguenze ancora poco chiare sulla nostra salute generale.

I dati provengono da 3.500 campioni, 1.400 del cavo orale e 2.100 dell’intestino. I ricercatori hanno identificato 46 milioni di geni al loro interno, di cui solo 23 milioni condivisi da più persone. I restanti 23 milioni cambiano di individuo in individuo. Secondo gli scienziati, i primi potrebbero essere legati a funzioni base per i batteri, mentre gli altri servirebbero in casi specifici. Probabilmente, questi ultimi dipendono in buona parte da fattori ambientali e dallo stile di vita.

Fonte: ansa.it

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Identificheremo l’Alzheimer con 20 anni d’anticipo

Potrebbe bastare un’analisi del sangue per diagnosticare l’Alzheimer 20 anni prima che si manifesti. Lo dimostra uno studio della Washington University School of Medicine (WUSTL) di St. Louis. I ricercatori hanno sviluppato un test in grado di identificare le peptide betamiloide, le proteine che causano le placche caratteristiche della malattia. Si tratta di una versione ancora più avanzata di un test sviluppato circa due anni fa.

Il test analizza i campioni di sangue tramite uno spettrometro di massa. In questo modo individua due forme di peptide betamiloide: le betamiloide 42 e il betamiloide 40. Quando cominciano a formarsi i depositi nel cervello, il rapporto tra le due scende. Il test è in grado di individuare questo cambiamento, nonostante non ci siano ancora sintomi evidenti di quanto sta succedendo.

Per provare l’efficacia del test, i ricercatori hanno coinvolto 158 adulti di almeno 50 anni. Tutti i partecipanti eccetto 10 avevano funzioni cognitive normali. Ogni paziente ha dato un campione di sangue ed eseguito una TAC cerebrale. I ricercatori hanno eseguito i test e classificato i campioni in base ai risultati. Nell’88% dei casi, le analisi del sangue e le TAC hanno dato risultati identici.

Per migliorare l’accuratezza delle analisi del sangue, gli scienziati hanno combinato i risultati con altri fattori di rischio. Hanno quindi tenuto conto di età e varianti genetiche specifiche. L’operazione ha permesso di raggiungere un livello di accuratezza pari al 94%, confermato dal follow-up portato avanti negli anni successivi.

In alcuni casi il test si è dimostrato addirittura più sensibile della TAC. Ciò significa che potrebbe identificare la malattia nei suoi primissimi stadi, addirittura vent’anni prima che si manifesti. In questo modo sarebbe possibile rallentare la formazione delle placche e la progressione della malattia.

Fonte: medicalnewstoday.com

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Possiamo rimandare la menopausa?

Un nuovo trattamento potrebbe ritardare la menopausa perfino di vent’anni, in modo da poter avere figli più tardi. La procedura è in fase di sperimentazione a Birmingham, per il momento disponibile per le donne fino a 40 anni. Il principio è simile a quello dei trattamenti di conservazione della fertilità per le donne che si devono sottoporre a chemioterapia.

Il trattamento prevede una serie di procedure invasive. I medici prelevano un campione di tessuto ovarico dalle donne e lo congelano. Se arrivata alla menopausa la donna desidera avere un figlio, può farsi trapiantare nuovamente il pezzo di tessuto. In frammento stimola la produzione di nuovi ormoni, riportandoli ai livelli pre-menopausa. In questo modo la donna può di nuovo restare incinta, almeno in teoria.

Per il momento sono 9 le donne che si sono sottoposte alla procedura. Le pazienti sono tutte britanniche, di età compresa tra i 22 e i 36 anni. La procedura potrebbe aiutarle non solo ad avere un figlio in età più avanzata, ma soprattutto a rimandare i tanti effetti negativi della menopausa. I livelli ripristinati di ormoni servirebbero infatti a contrastare caldane, ansia, osteoporosi, aumento di peso.

La tecnica si è già dimostrata efficace contro l’infertilità data dalla chemio. Per quanto riguarda questo utilizzo specifico, invece, i medici hanno alcune perplessità. Secondo alcuni, non sappiamo ancora se il campione di tessuto ovarico basterà per produrre la giusta quantità di ormoni. Inoltre, non è stata provata la sicurezza del trattamento su donne sane che sono semplicemente entrate in menopausa.

Fonte: huffingtonpost.co.uk

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