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Aurora magazine

Atresia biliare: cause e sintomi

L’atresia biliare è una malattia che interessa i dotti biliari, ovvero i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino. Si manifesta già in età neonatale e provoca il riflusso della bile nel fegato, provocando cirrosi e ingiallimento della pelle. Il tessuto fibroso nei dotti blocca la bile che fluisce nel fegato, danneggiando ulteriormente l’organo.

La malattia colpisce circa un nuovo nato su 20.000, soprattutto bambine. Nonostante le cause siano genetiche, non è una malattia ereditaria se non in casi rarissimi.

Di soliti l’atresia si manifesta tra la seconda e la sesta settimana di vita. Il neonato ha la pelle gialla, il fegato ingrossato e l’addome gonfio. Le urine sono scure e le feci sono chiare. Tutti questi sintomi sono presenti anche in altre malattie epatiche, il che rende la diagnosi più laboriosa. Prima di parlare di atresia è necessario eseguire test di laboratorio che escludano le altre patologie. A questo punto si usano gli ultrasuoni per misurare la grandezza dei dotti biliari.

Per il momento, l’unico trattamento per l’atresia biliare è quello chirurgico. Il medico crea un drenaggio della bile dal fegato, così da sostituire i dotti ostruiti. A questo scopo si utilizza un pezzo di intestino prelevato dal bambino stesso. Se tutto va bene, l’ittero scompare e il bambino torna a stare bene almeno per qualche tempo. Può seguire una dieta abbastanza normale, con le dovute attenzioni. Purtroppo l’operazione ha successo solo nel 50% dei casi.

In caso di flusso biliare ridotto, il bambino deve ridurre il più possibile i grassi. Inoltre deve assumere integratori vitaminici, dato che uno dei compiti della bile è proprio assorbire queste sostanze.

Anche nei migliori dei casi, il danno epatico tende a proseguire il proprio corso e a provocare la cirrosi. A questo punto non resta che il trapianto di fegato.

Fonte: paginemediche.it

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Sindrome di West: cause e sintomi

La sindrome di West è una rara forma di epilessia. I primi sintomi si manifestano in età neonatale: il piccolo ha scariche di spasmi involontari, dopo i quali si lasciano andare a crisi di pianto. In alcuni casi, gli spasmi sono concomitanti a un rallentamento dello sviluppo psicomotorio. La gravità varia di caso in caso: ci sono piccoli che a un anno di età non riescono ancora a stare seduti. Nonostante alcuni trattamenti blocchino gli spasmi, capita che il ritardo psicomotorio permanga.

La causa principale della sindrome di West è un’anomalia cerebrale causata da:

  • malformazione;
  • infezione;
  • carenza di ossigeno.

Talvolta la causa è invece genetica o criptogenetica, ovvero collegata ad anomalie non ancora identificate. I geni più colpiti dalle mutazioni sono ARX e STK9, ma la sindrome può essere legata anche alla trisomia 21 o a una delezione della regione 1p39 sul cromosoma 1.

La diagnosi della sindrome di West avviene mediante analisi del quadro clinico dell'elettroencefalogramma. I trattamenti disponibili sono in prevalenza farmacologici e servono ad arrestare gli spasmi. In questo modo si evitano buona parte delle ripercussioni sullo sviluppo e, se tutto va bene, il bambino può recuperare le funzioni perse. Purtroppo, nel 50-60% dei casi la sindrome di West è resistente alle cure.

Fonte: telethon.it

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Sindrome Proteus: cause e sintomi

La sindrome Proteus è una malattia genetica rara, con solo 120 casi descritti ad oggi. Chi ne soffre sembra sano alla nascita e i primi sintomi si manifestano solo attorno ai 6-18 mesi.

I bambini mostrano un iperaccrescimento simmetrico, che colpisce di solito mani e piedi. Seguono lo sviluppo eccessivo delle dita e l’allungamento asimmetrico degli arti. Spesso questi bambini hanno una gamba o un braccio più lungo dell’altro, con deformazioni che possono interessare anche il cranio. Man mano che la malattia procede, si possono presentare nevi cerebriformi del tessuto connettivo su tutto il corpo.

Sul piano neurologico, la sindrome Proteus causa deficit cognitivo, trombosi sinusale e lesioni intracraniche. Compaiono inoltre tumori benigni e, più raramente, maligni. C’è inoltre il rischio di complicazioni quali pneumopatia bollosa, embolia polmonare, trombosi venosa profonda.

La diagnosi avviene mediante osservazione clinica e test molecolari. Ci sono tre categorie per la malattia, ciascuna con propri criteri specifici legati ai sintomi più comuni. Se questi criteri non si manifestano, è possibile che si tratti di una malattia simile alla sindrome di Proteus ma non assimilabile ad essa. Quelle più comuni sono le sindromi CLOVE e di Maffucci, la malattia di Ollier e altre.

Purtroppo non esiste alcuno strumento per la diagnosi prenatale: gran parte dei casi sono legati ad anomalie sporadiche, non ereditarie. A coloro che manifestano le mutazioni PTEN si consiglia però una buona consulenza genetica. Questi soggetti, infatti, possono trasmettere la malattia con modalità autosomica dominante.

Non esiste una terapia risolutiva per la sindrome Proteus. L’approccio è multidisciplinare e prevede interventi per il controllo dei sintomi più gravi. La fisioterapia e la terapia occupazionale sono di aiuto in molti casi, così come la rimozione dei tumori e delle deformità sospette. La prognosi cambia a seconda della gravità delle complicazioni.

Fonte: orpha.net

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Spondilite anchilosante: cos’è e come si manifesta

La spondilite anchilosante – o pelvispondilite anchilopoietica – è una malattia genetica che colpisce la colonna vertebrale. Colpisce soprattutto gli uomini e si manifesta attorno ai vent’anni con dolori, problemi articolari, problemi cardiaci. Nelle sue forme più gravi è molto debilitante e può interessare anche occhi, intestino e polmoni.

La malattia è una forma di infiammazione cronica, che si origina dal punto in cui i legamenti si uniscono all’osso. L’infiammazione logora i legamenti e l’organismo li sostituisce con tessuto osseo. Man mano che l’infiammazione procede, si forma sempre più osso che sostituisce il tessuto elastico e limita i movimenti. Quando il processo tocca la colonna vertebrale, le vertebre si fondono e formano un’unica colonna ossea. A questo punto, il danno è irreversibile.

La spondilite anchilosante è una malattia antica, forse quella di cui soffriva Leopardi. Gli studi paleopatologici hanno rivelato addirittura mummie egizie con danni compatibili con la malattia. Nonostante questo, le prime tracce nella letteratura medica risalgono al 1559. I medici l’hanno identificata come una patologia distinta solo a metà 1800. Verso la metà del ‘900, i raggi X hanno permesso una migliore distinzione rispetto all’artrite reumatoide.

Ancora oggi è poco chiaro quale sia la causa genetica della spondilite anchilosante. Il 96% dei pazienti caucasici presenta la proteina B27 sulla superficie dei globuli bianchi. Ci dovrebbe quindi essere un collegamento genetico, ma pare che anche i fattori ambientali abbiano una loro importanza.

La malattia ha conseguenze importanti sullo stile di vita: rende più difficile lavorare, il dolore disturba il sonno e spesso impedisce anche di guidare. La diagnosi spesso tardiva e l’assenza di una terapia risolutiva contribuiscono a rendere ancora più difficile la vita di queste persone.

Fonte: sanihelp.it

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