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Aurora magazine

Aspirina nel primo trimestre contro la preeclampsia

In Irlanda, la strategia attuale contro la preeclampsia prevede uno screening alla comparsa dei primi sintomi. L’approccio, però, potrebbe non essere dei più efficaci per la salute di mamma e bambino. Una possibile alternativa potrebbe arrivare da una ricerca dell’University College Dublin (UCD). Secondo i ricercatori, 75 mg di aspirina al giorno durante il primo trimestre ridurrebbe il rischio di preeclampsia in maniera importante.

Lo studio si basa su ricerche fatte in passato, che avevano già provato questo effetto dell’aspirina. È però la prima volta che si analizza l’efficacia di questa terapia preventiva nelle donne a basso rischio. Il prossimo passo sarà coinvolgere un numero molto più ampio di donne, così da provarne la sicurezza. Se tutto andasse bene, prendere una dose minima di aspirina nel primo trimestre potrebbe diventare una forma standard di prevenzione.

La preeclampsia colpisce 1 prima gravidanza su 10. Spesso i primi segnali di allarme passano inosservati, causando seri problemi a mamma e bambino. La donna può incorrere in danni a fegato, reni, cervello e cuore. Molte sviluppano anche anomalie a livello metabolico. Il 25% dei bambini nascono prematuri e più piccoli della media.

Di solito la preeclampsia si manifesta nella seconda metà della gravidanza, intorno alla 20a settimana. Il solo trattamento disponibile è indurre il parto il prima possibile. Secondo i ricercatori di Dublino, una dose minima di aspirina dalla 11a alla 36a settimana di gestazione sarebbe la soluzione.

Lo studio ha coinvolto 546 donne incinte, che i medici hanno incoraggiato a prendere l’aspirina tutti i giorni. Il 90% di loro ha accettato. Le future mamme hanno lamentato un lieve aumento dei casi di sanguinamento vaginale, che non paiono aver influito sulla buona riuscita della gestazione. In compenso, i ricercatori hanno preso nota di una diminuzione dei casi di preeclampsia.

Fonte: medicalxpress.com

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Perché si fanno sogni strani in gravidanza?

I sogni hanno sempre una logica tutta loro. Eppure, in gravidanza sembrano farsi ancora più bizzarri e inquietanti. Il fenomeno pare tutto tranne che isolato e potrebbe avere solide basi scientifiche. Le ha esaminate più di uno studio, facendo scoperte sorprendenti su come funzionano i sogni in gravidanza.

La fase REM occupa circa il 25% del tempo dedicato al sonno e ritorna più volte durante la notte. È il momento in cui si sogna e il cervello mette ordine tra le esperienze vissute durante il giorno. Quando ci si sveglia durante la fase REM, è più facile ricordare che sogni si stavano facendo anche in maniera nitida.

Il sonno disturbato è uno dei disturbi più comuni in gravidanza. Una delle cause sta negli alti livelli di progesterone, cui si sommano disagi legati al peso del pancione e allo stress. Dato che ci si sveglia molto più di notte, è anche più facile svegliarsi durante la fase REM. Questo spiega almeno in parte perché le donne incinte ricordino i sogni fatti con maggiore facilità e meglio.

Le donne in dolce attesa lamentano anche una maggiore frequenza di brutti sogni, molti dei quali a tema parto. Uno studio pubblicato sulla rivista BMC Pregnancy and Childbirth analizzava i questionari di 406 donne incinte tra i 17 e il 44 anni. Le donne riportavano circa il doppio di incubi rispetto alle donne non incinte, spesso legati al bambino che portavano in grembo.

La causa è soprattutto psicologica. La gestazione è un periodo di altissimo stress, che spesso si traduce in un aumento dei brutti sogni.

Fonte: livescience.com

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La depressione in gravidanza è aumentata del 51%

I casi di ansia e depressione in gravidanza sono aumentati del 51%. È quanto prova uno studio dell’Università di Bristol. I ricercatori hanno esaminato i questionari di due generazioni di gestanti, comparando i livelli di pressione negli ultimi 20 anni. Da quanto è emerso, c’è stato un netto aumento del problema.

Gli autori dello studio hanno coinvolto 2.390 donne incinte negli anni ‘90 e 180 donne nate in quegli anni. Tra queste ultime i sintomi legati ad ansia e depressione sono risultati il 51% più comuni. Oggi il 25% delle mamme sotto i 24 anni soffre di depressione, contro il 17% negli anni ‘90. Le figlie di mamme depresse, inoltre, hanno mostrato 3 volte il rischio di soffrire dello stesso problema.

È la prima volta che i ricercatori comparano la salute mentale in gravidanza di due generazioni. È stato possibile grazie ai dati raccolti negli anni ‘90 e riguardanti il tema. Ha permesso inoltre di analizzare le differenze di sintomi tra le generazioni di mamme. Le future mamme degli anni ‘90 si sentivano giù e apatiche, mentre quelle di oggi sono molto più stressate. Il prossimo passo sarà comprendere il perché di questo aumento e come affrontarlo.

Lo studio è importante sia per la salute delle future mamme sia per quelle dei bambini. La depressione in gravidanza ha infatti un impatto importante sullo sviluppo fetale e sulla salute del bambino. Comprendere come affrontarla al meglio e tenere d’occhio i soggetti più a rischio sarebbe un grosso passo in avanti.

Fonte: bristol.ac.uk

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L’alimentazione materna influenza il microbiota fetale

Il microbiota è l’insieme dei batteri che vivono all’interno dell’intestino umano. Si tratta di una comunità essenziale per il corretto funzionamento dell’organo e quindi per il benessere dell’individuo. Secondo uno studio guidato dalla dottoressa Sara Lundgren, l’alimentazione in gravidanza potrebbe influenzare il microbiota del nascituro.

Il team della dottoressa Lundgren ha analizzato la composizione del microbiota di 97 bambini, tutti nati con parto naturale. Hanno così individuato la seguente composizione batterica media:

  • 20% enterobatteriacee
  • 18,6% bifidobatteri
  • 10,44% batteroidi
  • 8,10% streptococchi

Gli autori hanno individuato tre diversi grappoli di microbi nella composizione batterica intestinale. Nel gruppo 1 c’era abbondanza di bifidobatteri; nel gruppo 2 prevalevano streptococchi e clostridio; nel gruppo 3 c’erano per lo più batteroidi. La composizione batterica intestinale è risultata diversa in 48 bambini nati da cesareo. In questi ultimi, il gruppo 1 mostrava abbondanza di bifidobatteri; il gruppo 2 era caratterizzato da alti livelli di clostridio e bassi di streptococchi; nel 3 abbondavano le enterobatteriacee.

Secondo gli autori dello studio, alcune differenze potrebbero essere state influenzate anche dalla dieta delle madri durante la gestazione. Nei bambini nati naturalmente, le possibilità di rientrare nel gruppo 2 aumentavano di 2,73 volte per ogni porzione di frutta consumata giornalmente dalla madre. Al contrario, i livelli di bifidobatteri erano molto alti nei bambini nati con cesareo da madri che consumavano tanta carne rossa.

Fonte: biomedcentral.com

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