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Aurora magazine

L’esposizione prenatale alla violenza rende violenti?

I neonati esposti in fase prenatale alla violenza hanno un tasso più alto di atteggiamenti aggressivi verso le madri. Lo sostiene una ricerca delle professoresse Laura Miller-Graff e Jennifer Burke Lefever, dell’Università di Notre Dame.

Le donne in gravidanza sono più esposte alla violenza domestica rispetto alle altre. Molti studi si concentrano quindi sulle conseguenze negative sull’andamento della gestazione. Questo studio analizza per la prima volta le conseguenze a lungo termine sulla psicologia infantile. È emerso che l’esposizione prenatale alla violenza ha conseguenze più profonde di quanto non si potrebbe credere.

Nonostante l’esposizione sia indiretta, i bambini mostrano delle ripercussioni fino ai 2 anni di vita. I figli di donne vittime di violenza sono più aggressivi, meno propensi a obbedire alla madre. Ciononostante, questa aggressività tende a non uscire dalle mura domestiche. Gran parte dei bambini analizzati hanno comportamenti normali con i coetanei e sfogano l’aggressività solo sul genitore.

Gran parte dei sistemi di supporto individuano l’esposizione dei bambini a casi di violenza domestica in età prescolare. Purtroppo potrebbe essere già tardi per evitare un impatto negativo sul piccolo, oltre che ovviamente sulla madre.

Secondo le autrici dello studio, la gravidanza potrebbe essere un buon momento per individuare gli episodi di violenza e intervenire. Le donne sono sotto controllo costante a causa della gestazione, a contatto con medici e psicologi. Muoversi dopo, come si fa di solito, potrebbe essere tardi per mamme e bambini.

Fonte: eurekalert.org

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L’Australia si muove contro la sindrome dell'ovaio policistico

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è la principale causa di infertilità femminile. I ricercatori australiani hanno quindi elaborato una serie di linee guida per la diagnosi precoce e il trattamento della malattia. In questo modo sperano di facilitare la diagnosi del disturbo, migliorando i trattamenti e le possibilità di prevenire le complicazioni.

La stesura delle linee guida ha coinvolto 70 esperti, che hanno lavorato per oltre 15 mesi al progetto. Le linee guida sono state pubblicate su tre giornali internazionali, così da raggiungere più professionisti possibile. Alcuni degli esperti stanno inoltre lavorando alle traduzioni, per facilitarne la diffusione e la ricezione.

La sindrome dell’ovaio policistico è un disordine ormonale o endocrino, legato a livelli troppo alti di insulina. Ciò provoca: aumento di peli sul viso; perdita di capelli; anomalie nell’ovulazione; aumento di peso; ansia e depressione. Nei casi più gravi, il disturbo causa infertilità. Ciononostante, la diagnosi precoce può aiutare a prevenire gli affetti più gravi e a preservare la fertilità.

Il progetto è partito da una ricerca, dalla quale emergeva che molte donne non ricevono trattamenti adeguati per la malattia. Le linee guida si propongono di migliorare i criteri di diagnosi e incentivare test semplici e ad hoc. Inoltre, prende in considerazione l’influenza dello stile di vita sul disturbo e gli eventuali cambiamenti da apportare. Ad esempio, è stato provato che l’obesità aumenta il rischio di complicazioni legate alla PCOS.

Fonte: monash.edu.au

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Gravidanza dopo un trapianto? Si può

È possibile avere un figlio dopo aver subito un trapianto di cuore? Secondo i dati raccolti dal 1988 a oggi, la risposta è sì. La futura mamma deve però attenersi alle istruzioni del medico e prendere alcune accortezze. Solo così può salvaguardare la propria salute e quella del piccolo.

L’unico registro dedicato ai casi di gravidanza post-trapianto cardiaco era negli Stati Uniti. Un team di specialisti del Degasperis Cardio Center dell’ospedale Niguarda di Milano ha deciso di rimediare. Il centro è uno dei più importanti in Italia per i trapianti di cuore, secondo solo al policlinico di Padova. I medici hanno quindi seguito 11 ex pazienti durante la gravidanza.

Le donne si erano sottoposte a trapianto tra il 1985 e il 2016. Una di loro ha avuto due figli e nessuno dei 12 bambini ha mostrato danni congeniti o segni di malattia cardiaca. È la prima volta che uno studio del genere mostra un tasso del 100% di bambini nati vivi. Le conclusioni dello studio sono quindi positive: avere un figlio dopo un trapianto è possibile.

Il desiderio di maternità è indicativo anche di quanto il tasso di sopravvivenza sia cresciuto. A dieci anni dal trapianto, sopravvive circa il 70% dei pazienti. Nonostante le aspettative di vita siano più basse della media, rimane comunque il tempo per avere un figlio e vederlo crescere.

I medici raccomandano di aspettare almeno un anno dopo il trapianto per affrontare la gravidanza. In questo modo si può escludere il rischio di vasculopatia cardiaca e di rigetto, che ridurrebbero l’aspettativa di vita. Inoltre, è importante tenere sempre in considerazione il rischio di parto prematuro e di peso ridotto alla nascita.

Fonte: lastampa.it

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Madre amorevole o no? Lo decide (anche) un gene nel feto

Gli ormoni prodotti in gravidanza spingono la madre a prendersi cura del suo piccolo. Questo vale nei topi così come negli esseri umani. Secondo una ricerca dei dottori Rosalind John e Anthony Isles della Cardiff University, potrebbe esserci di più. Nel genoma del feto ci sarebbe infatti un gene che decide quanto le cure materne saranno intense.

La placenta è un organo che deriva in parte dalla madre e in parte dal feto. Il suo compito è permettere lo scambio di nutrienti tra madre e feto, ma non solo. Produce infatti degli ormoni che preparano la donna alla prossima maternità. Ormoni che paiono dipendere dal genoma fetale presente nella placenta.

La secrezione ormonale della placenta dipende da un gene del feto chiamato Phlda2. Più il gene è attivo, meno ormoni vengono prodotti. Ciò significa che il feto influenza quante cure riceverà dopo la nascita, almeno in parte. Per provare il fenomeno, i due ricercatori hanno testato la loro teoria su un gruppo di cavie.

Le piccole cavie esaminate possedevano due copie di Phlda2, una da parte di madre e una da parte di padre. Solo una delle due copie era arriva, mentre quella paterna era silenziata. I ricercatori hanno quindi creato degli embrioni di topo con entrambe le copie attive o entrambe le copie silenziate.

Le cavie che durante la gravidanza erano state esposte a livelli più bassi di ormoni accudivano meno i piccoli. Si concentravano invece sulla costruzione del nido. Viceversa nelle cavie esposte a livelli più alti di ormoni. Maggiore era l’attività di Phlda2, meno erano gli ormoni e minore era la cura data ai piccoli.

Fonte: lescienze.it

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