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Aurora magazine

Un feto vede più di quanto non si creda

Un team dell’Università della California ha esaminato le cellule della retina di feti a diversi livelli di sviluppo. Le analisi dimostrano che nel secondo trimestre, molto prima di poter distinguere delle immagini, il feto è in grado di percepire la luce. Secondo i ricercatori, questo potrebbe influenzare lo sviluppo stesso.

Le cellule della retina che percepiscono la luce si sviluppano entro il secondo trimestre: lo si sapeva già. Fino ad oggi, gli scienziati le consideravano uno strumento del feto per allinearsi ai ritmi materni. Invece, queste cellule comunicano tra loro e danno all’occhio una sensibilità maggiore di quanto non si credesse.

Le cellule gangliari retiniche mandano messaggi attraverso il nervo ottico fino al cervello. In un occhio in via di sviluppo, le cellule funzionanti sono circa il 3% e comunicano con diverse aree del cervello. Alcune di esse si interfacciano con le aree responsabili del ciclo veglia-sonno. Altre mandano i segnali che regolano i movimenti della pupilla. Infine, queste cellule si connettono con le aree che regolano l’umore e le emozioni. Quest’ultimo fatto ha stupito gli scienziati.

A partire dalle analisi su topi e scimmie, gli scienziati hanno analizzato il ruolo delle cellule gangliari nello sviluppo fetale. Potrebbero addirittura essere alla base di emicranie, o spiegare perché la light therapy aiuta contro la depressione.

Fonte: berkeley.edu

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Il gene di un moscerino ci aiuterà contro le malattie mitocondriali

Un team di scienziati dell’Università di Cambridge ha identificato un gene fondamentale nei moscerini della frutta. Questo gene codifica per una proteina che può essere usata per trattare alcune malattie mitocondriali. La scoperta potrebbe essere un punto di svolta nel trattamento di queste malattie genetiche, molte delle quali non hanno una cura.

Ciascuna cellula contiene centinaia di copie del DNA mitocondriale, alcune delle quali possono contenere anomalie. Quando le copie mutate superano l’80%, si presentano le malattie genetiche in questione. Si calcola che ciò accada in circa una persona su 5.000 nel solo Regno Unito, a volte con conseguenze fatali.

La lotta tra copie sane e mutate del DNA mitocondriale ha un ruolo fondamentale nello sviluppo, pur non essendo del tutto chiaro. I ricercatori hanno quindi usato i moscerini della frutta per studiare le possibili anomalie nei mitocondri e come cambiano nel tempo.

I ricercatori hanno creato dei moscerini con tre genitori, con il DNA mitocondriale di una seconda madre. Ciascun moscerino era portatore di due genomi mitocondriali, uno sano e l’altro mutato, che si bilanciavano a vicenda. È però bastato un cambiamento nel DNA nucleare per spezzare l’equilibrio. Grazie a queste osservazioni, gli scienziati hanno misurato l’influenza di ciascun gene in questo processo. Alla fine, ne hanno individuato uno in particolare.

Il gene che codifica per la polimerasi mitocondriale pare essere la chiave del processo. Riducendo i livelli di polimerasi, la percentuale di copie sane del DNA mitocondriale salgono dal 20% al 75% in una generazione. Tanto basta per ridurre i sintomi delle malattie e dare una vita più sana ai pazienti, quanto meno a quelli con le ali. Il prossimo passo sarà testare la scoperta sui topi e sugli esseri umani.

Fonte: cam.ac.uk

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C’è un legame tra infiammazioni e depressione post-partum?

Il professor Eric Achtyes dell’Università del Michigan ha condotto un nuovo studio sulla depressione post-partum. Da quanto è emerso, l’insorgere di infiammazioni durante e subito dopo la gravidanza potrebbe essere collegato al fenomeno. Il legame tra le due cose non è ancora del tutto chiaro, però.

Le infiammazioni hanno un ruolo essenziale in gravidanza. Nelle prime fasi della gravidanza, servono a difendere l’embrione dal sistema immunitario della madre. In condizioni normali, dovrebbero svanire in breve tempo, una volta che non sono più necessarie. Capita però che le reazioni infiammatorie si protraggano più a lungo del previsto, con forse conseguenze anche sulla salute psicologica della madre.

Dopo il parto, è normale sperimentare un calo dell’umore. Il fenomeno viene detto “baby blues” e non va confuso con la molto più seria depressione post-partum. Quest’ultima è una condizione medica sera, che può peggiorare in breve tempo e richiedere anche l’ospedalizzazione della neo mamma.

La depressione post-partum colpisce circa 1 donna ogni 5, il che la rende un disturbo più diffuso di quanto si creda. Ciononostante, si tratta di un problema ancora poco compreso, che spesso affonda le proprie radici durante la gravidanza. I primi sintomi tendono a manifestarsi nelle ultime settimane della gestazione, peggiorando dopo il parto. Nel 14% dei casi, provoca perfino pensieri suicidi. Secondo gli autori dello studio, le infiammazioni potrebbero essere una delle cause.

I ricercatori hanno analizzato il sangue di 165 pazienti incinte. In alcune di queste hanno individuato diversi fattori infiammatori, con alti livelli di citosine. Inoltre, gli scienziati hanno osservato una drastica riduzione della seratonina. Entrambe le cose paiono essere collegate a un rischio maggiore di depressione post-partum.

Fonte: vai.org

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L’epigenetica è meno fattibile di quanto si creda

I test prenatali e genetici sollevano qualche preoccupazione, a volte. Alcune persone credono che li si possa usare per ottenere bambini su misura, con caratteristiche decise a tavolino. In realtà, i test di screening servono solo a verificare lo stato di salute di embrioni e feti. L’epigenetica vera e propria è solo fantascienza, almeno al momento. Uno studio condotto dal dottor Shai Carmi dell’Università di Gerusalemme conferma la cosa.

Lo studio mette in luce come molti tratti dipendano da varianti su più geni, non da una singola mutazione. Questo fatto complica gli screening prenatali, quanto meno per certe malattie – e rende di fatto impossibile programmare un bambino a piacere. Tratti come l’intelligenza o l’altezza dipendono infatti da un gran numero di fattori, alcuni ambientali e altri genetici. In base alle conoscenze che abbiamo oggi, cercare di selezionare un embrione in base all’intelligenza futura sarebbe un’impresa titanica.

Per provare il proprio punto, i ricercatori hanno usato una simulazione computerizzata basata sul genoma di persone reali. A partire da questi, hanno creato 10 embrioni ipotetici per ciascuna coppia. Il processo imitava ciò che avviene durante un vero ciclo di IVF, con tanto di numero limitato di embrioni. Dopodiché, i ricercatori hanno assegnato un punteggio a ciascun embrione, in base ai presunti vantaggi genetici.

Gli embrioni selezionati sarebbero dovuti essere la creme genetica dei genitori. Eppure, il vantaggio rispetto agli altri si è rivelato abbastanza piccolo. Gli ipotetici adulti avrebbero avuto un QI 3 punti sopra la media degli embrioni non selezionati. Lo stesso vale per l’altezza. Il tutto al prezzo di test genetici ancora poco precisi, almeno quando si parla di tratti della persona e non di malattie genetiche.

Fonte: cellpress.com

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