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Aurora magazine

Individuati biomarcatori per le malformazioni da Zika

I ricercatori dell’Università del Sud della California hanno scoperto un possibile biomarcatore per le malformazioni da Zika. Se confermata, la notizia potrebbe migliorare gli screening prenatali e migliorare la lotta al virus.

I rischi maggiori derivanti dal virus sono legati a infezioni che si verificano nel primo e nel secondo trimestre. Un test prenatale potrebbe facilitare la diagnosi precoce, che ad oggi avviene solo quando la gravidanza è già avanzata. Il team si aspetta di poterlo sviluppare in relativamente poco tempo, offrendo anche ulteriori informazioni sui meccanismi dell’infezione.

I ricercatori hanno messo a confronto campioni di sangue provenienti da 30 donne infette e 30 sane. Grazie ai campioni, gli scienziati hanno osservato le reazioni del sistema immunitario all’infezione. Si sono concentrati sulle citochine prodotte dall’organismo e ne hanno individuate 69. Di queste, 16 potrebbero essere legate alle malformazioni causate dal virus. Saranno però necessarie altre analisi, anche per individuare altri eventuali agenti chimici.

Secondo gli autori dello studio, potrebbero essere coinvolti anche altri messaggeri chimici, o sostanze secrete in risposta a fattori particolari. Si tratta comunque di un inizio, che mette le basi per lo sviluppo di test prenatali che facilitino la diagnosi precoce di Zika. L’obiettivo è ottenere un test simile a quello del DNA fetale, che sfrutti il materiale presente nel sangue materno senza toccare il feto.

Fonte: medicaldevice-network.com

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Individuato nuovo processo biologico per la malattia di Batten

Un team del Baylor College of Medicine ha individuato un nuovo processo biologico alla base della malattia di Batten. Lo scopo della ricerca era comprendere il funzionamento dei lisosomi coinvolti e individuare una possibile leva per le terapie.

La malattia è associata a un difetto nella proteina CLN8 localizzato però nel reticolo endoplasmatico. Ciononostante, la Batten rientra tra le cosiddette malattie da accumulo lisosomiale. Di conseguenza, i ricercatori immaginava già che la mutazione si dovesse trovare in una proteina comunque localizzata nei lisosomi. Lo studio ha chiarito parte del meccanismo.

I ricercatori hanno analizzato 4 proteine che aiutano gli enzimi lisosomiali a uscire dal reticolo endoplasmatico. Tra queste c’era anche CLN8, l’unica che interagiva con due terzi degli enzimi testati. Di conseguenza, gli scienziati si sono concentrati su di essa e sono passati all’analisi nei modelli animali.

Le cavie con una versione difettosa di CLN8 avevano meno enzimi nei lisosomi. Infatti, la proteina è necessaria per permettere agli enzimi appena formati di uscire e fare il loro lavoro. CLN8 funge in pratica da cargo trasportatore, che seleziona e trasferisce nel complesso di Golgi gli enzimi appena sintetizzati. Qui vengono modificati e quindi inviati ai lisosomi. In coloro che soffrono della malattia di Batten il processo non funziona.

Quando la proteina non funziona a dovere, l’enzima lisosomiale non riesce ad attraversare il reticolo endoplasmatico. Di conseguenza si verifica un deficit all’interno dei lisosomi, che porta allo sviluppo della malattia. Rimane da verificare se CLN8 lavora insieme ad altre proteine, come risponde alla degradazione cellulare e come riconosce gli enzimi da trasportare. Inoltre, sarà essenziale capire come correggere il processo con una terapia farmacologica.

Fonte: raredr.com

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500 mila DNA al servizio della medicina di precisione

La medicina di precisione fa un nuovo passo in avanti grazie alla UK Biobank, una delle più importanti banche del DNA d’Europa. Al suo interno ci sono i dati del genoma di 500 mila persone, messi a disposizione per la ricerca biomedica. Grazie ad essi, il team del genetista Giuseppe Novelli ha gettato nuova luce su alcune delle più comuni malattie a base genetica. In futuro, le scoperte fatte potrebbero aiutare a identificare i soggetti a rischio di tumori, diabete e malattie cardiovascolari.

Il team dell’Università Roma Tor Vergata si avvalso dei campioni di DNA e non solo. Tra il 2006 e il 2010, i ricercatori hanno raccolto anche campioni di urine e plasma di volontari tra i 40 e i 69 anni. In combinazione con i dati sul genoma, hanno facilitato la divisione della popolazione in strati diversi. In questo modo hanno potuto identificare le fasce della popolazione più a rischio di diabete, infarto e altre patologie. Tutte malattie diverse, per le quali manca uno screening efficaci a livello mondiale.

Fino a oggi gli studi che collegano DNA e fenotipo della persona erano stati condotti solo su piccoli gruppi. Inoltre, riguardavano in prevalenza individui affetti da malattie genetiche o da condizioni particolari. I due studi in questione sono i primi che coinvolgono un numero così ampio di volontari e che tocca un po’ tutti. I ricercatori sono riusciti a individuare circa 96 milioni di marcatori genetici legati a patologie diffuse. Hanno così centuplicato il numero di informazioni legate ad esse.

Uno dei due studi si è concentrato sul genoma di 8.428 persone e sulle risonanze magnetiche di 10.000 persone. Combinando i dati, i ricercatori hanno cercato le varianti genetiche collegabili alla genesi di alcune malattie neurodegenerative. Per la prima volta hanno unito mappe cerebrali, DNA e risonanza magnetica. Il tutto allo scopo di trovare nuovi sistemi di prevenzione e screening.

Lo studio è ancora in corso. Nei prossimi 3 anni, i ricercatori aggiungeranno i dati ricavati dalla risonanza magnetica di altre 70.000 persone. Intendono infatti studiare lo sviluppo e l’invecchiamento del cervello, oltre alle conseguenze lasciate dalle malattie.

Fonte: ansa.it

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Identificata molecola chiave nella regolazione della risposta immunitaria

Un team internazionale ha studiato una molecola chiamata TIM-3, che potrebbe giocare un ruolo chiave nella regolazione delle risposte immunitarie. Lo studio è stato condotto dagli scienziati del McGill University Health Centre (RI-MUHC), del Montreal Children's Hospital e della McGill University. In collaborazione con i colleghi dell’Université Paris-Descartes e dell’Imagine Institute, hanno isolato questa proteina. Grazie a ulteriori studi, potrebbe diventare un nuovo target per trattamenti contro tumori e altre malattie.

Quando la proteina TIM-3 è soppressa o inattiva, i linfociti T diventano incontrollabili. Ciò si traduce in una rara forma di linfoma chiamata linfoma sottocutaneo a cellule T panniculite-simile. Il team ha identificato le due mutazioni che agiscono sulla proteina TIM-3, impedendole di attaccare le cellule tumorali.

Lo studio si basa su un lavoro precedente, nel quale gli scienziati avevano rilevato la stessa forma di linfoma in due fratelli. Dopo averne sequenziato i genomi, hanno scoperto che entrambi i pazienti erano portatori della stessa mutazione. La variante interessava il gene HAVCR2, che codifica per la proteina TIM-3 e trasmissibile dai genitori. Si pensava che fosse comune soprattutto in Asia, ma ulteriori studi hanno smentito la cosa.

Grazie allo studio è emerso anche che questa forma di linfoma è molto più diffusa di quanto si credesse. Entrambe le mutazioni responsabili sono riscontrabili in individui asiatici, australiani e polinesiani, oltre che europei. Gli scienziati hanno infatti rilevato casi simili in pazienti con le mutazioni Tyr82Cys e Ile97Met, entrambe sullo stesso gene e in pazienti sia europei sia polinesiani.

Fonte: medicalxpress.com

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