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Aurora magazine

Tè o caffè? Lo decidono i geni

Da natura, dovremmo stare tutti ben lontani dal caffè. L’amaro è infatti legato a sostanze velenose e nocive: è per questo motivo che stiamo lontani da gran parte dei cibi che hanno questo sapore. Eppure, nel corso dei secoli il caffè ha conquistato il cuore di tantissime persone. Com’è possibile? Gli scienziati della Northwestern University hanno una possibile risposta.

I ricercatori statunitensi hanno studiato il rapporto tra geni, sensibilità all’amaro e preferenza tra caffè e tè. I soggetti più sensibili al sapore amaro sono anche quelli che consumano più caffè. La predisposizione ad apprezzare l’amaro del caffè sarebbe infatti frutto di esperienze di rinforzo positivo. Più caffè si beve, più ci si sente energetici e positivi, più si apprezza la bevanda. Gli scienziati come sono arrivati a questa conclusione?

Lo studio ha analizzato la sensibilità all’amaro e il consumo di bevande di 400.000 individui. Gli scienziati hanno cercato le varianti genetiche che influenzano la sensibilità all’amaro di tre sostanze: caffeina, chinino e PROP. La caffeina è la sostanza contenuta nel caffè, il chinino dà l’amaro all’acqua tonica e il PROP imita l’amaro di cavoli e broccoli. In un secondo momento, gli scienziati hanno confrontato i dati con il consumo di caffè, tè e alcool.

I soggetti più sensibili all’amaro della caffeina preferivano il caffè al tè. Quelli più predisposti verso chinino e PROP, invece, evitavano il caffè. Le persone più sensibili al PROP tendevano ad evitare anche l’alcool, in particolare il vino rosso.

Fonte: focus.it

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Il DNA predice le risposte ai farmaci antipsicotici

Il DNA può predire la risposta di un paziente a determinati farmaci antipsicotici. Lo rivela uno studio del Feinstein Institute for Medical Research. La scoperta potrebbe influenzare in maniera importante le attuali terapie farmacologiche contro la schizofrenia.

La schizofrenia è una malattia psichiatrica caratterizzata da allucinazione e comportamenti disorganizzati. Di solito la si tratta con farmaci antipsicotici, ma la scelta delle terapie viene fatta senza la guida di test di laboratorio. Spesso si procede per tentativi, cambiando farmaco quando quello in uso si dimostra inefficace. I pazienti faticano quindi a trovare una loro stabilità emotiva e anche professionale.

Il team del professor Todd Lencz ha usato i test genetici per predire la risposta alle terapie farmacologiche. Per lo studio hanno coinvolto pazienti cui era stato diagnosticato il primo episodio di schizofrenia. Ne hanno analizzato l’intero genoma, cercando migliaia di varianti genetiche legate alla malattia. In un secondo momento, hanno usato i risultati per dare un punteggio alla risposta al trattamento.

I risultati aprono le porte alla medicina di precisione in psichiatria. La speranza del team è ampliare lo studio, applicando i test genetici anche alle terapie per altre malattie psichiatriche. Inoltre, i test genetici potrebbero essere usati in combinazione con altri tipi di test, come tac e risonanze magnetiche.

L’obiettivo è garantire alle migliaia di persone che soffrono di malattie psichiatriche trattamenti personalizzati e sicuri. In futuro, potrebbe diventare possibile capire fin da subito quali farmaci danno più chance. In questo modo, i pazienti potrebbero vivere una vita relativamente normale e quanto meno più stabile.

Fonte: medicalxpress.com

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Una molecola per combattere la miopatia miotubulare

La miopatia miotubulare è una malattia genetiche che causa la paralisi completa. Porta alla morte entro i due anni di età e al momento non esiste nessun trattamento o cura. I ricercatori dell’Università di Ginevra e dell’Università di Strasburgo hanno però trovato una possibile strada.

I ricercatori hanno identificato una molecola che riduce la progressione della malattia e aumenta l’aspettativa di vita, quanto meno nei modelli animali. Si chiama tamoxifene e la si usa già nel trattamento del tumore al seno. Il prossimo passo sarà far partire i trial clinici, così da verificarne gli effetti sui bambini che soffrono di miopatia miotubulare.

Al momento è in corso uno studio sulla terapia genica. Prima che si possa passare alla sperimentazione umana, però, ci vorranno ancora degli anni. Ecco perché gli scienziati hanno cercato una possibile alternativa tra le molecole già usate in altri trattamenti sugli esseri umani. In questo modo, il possibile passaggio a un trattamento disponibile per tutti sarà più breve.

Il tamoxifene è usato da anni nel trattamento del tumore al seno. La molecola ha diverse proprietà interessanti, tra le quali un’azione protettrice verso le fibre muscolari. Inoltre, è antiossidante, anti-fibrotica e protegge i mitocondri. Per questo motivo, uno studio ancora in corso la sta usando nel trattamento contro la distrofia di Duchenne con risultati eccellenti.

Gli scienziati hanno somministrato il tamoxifene per via orale tutti i giorni a un gruppo di cavie. Nel corso dello studio hanno testato diversi dosaggi, tra i quali quello usato nel tumore al seno. I topi non trattati sono vissuti in media 45 giorni. Con la dose più bassa la vita media è stata 80 giorni, 120 giorni con la dose intermedia e 290 con quella più alta. Alcuni soggetti dell’ultimo gruppo sono arrivati addirittura a 400 giorni.

Fonte: unige.ch

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La longevità non viene dai nostri antenati

La lunghezza della vita di nonni e bisnonni avrebbe poco a che fare con la nostra longevità. Secondo uno studio statunitense, la lunghezza della nostra vita dipenderebbe dai geni solo per il 10%. Sono molto più importanti stile di vita, ambiente nel quale si vive e alimentazione. La prova? L’analisi di oltre 439 milioni di individui, finalizzata a scoprire quanto sono davvero importanti i geni per la durata della vita.

I ricercatori della Calico Life Sciences hanno selezionato gli alberi genealogici di oltre 400 mila individui. Sono andati a ritroso nel tempo, cercando date di nascita e di morte dei loro avi, ma anche i luoghi nei quali sono vissuti. Hanno quindi cercato i geni della longevità, confrontando consanguinei e individui provenienti da famiglie diverse. Da quanto è emerso, i geni avrebbero un’influenza ridotta sulla longevità individuale.

Il patrimonio genetico in comune influenza la longevità solo per il 10%. Se si tiene conto anche dei dati provenienti da parenti acquisiti, la percentuale scende ancora e arriva addirittura al 7%. Secondo le analisi, marito e moglie hanno una durata della vita molto più simile. Quello che sorprende, però, è questo vale anche per i cognati. La ragione? Forse i cosiddetti “accoppiamenti selettivi”.

Con accoppiamenti selettivi si indica la tendenza di fratelli e sorelle a scegliere partner simili. I cognati tenderebbero quindi ad avere in comune etnia, gusti, livello culturale e stile di vita. Questo influenzerebbe le loro aspettative di vita molto più dei geni, spiegando perché i cognati avrebbero una lunghezza della vita simile.

Fonte: ilmessaggero.it

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