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Aurora magazine

La genomica e la nuova era della diagnostica

La genomica sta acquistando sempre più importanza nel campo della diagnosi prenatale e della salute in generale. È dello scorso mese la decisione del Dipartimento della Salute statunitense di promuovere una nuova piattaforma di sequenziamento genetico. L’obiettivo principe è accelerare la decodifica di DNA e RNA, così da affrontare per tempo possibili pandemie e infezioni resistenti agli antibiotici. La genomica è inoltre uno strumento fondamentale nell’ambito della diagnosi prenatale non invasiva, nonché nella lotta contro il cancro.

Nell’ultimo anno tre realtà molto importanti hanno formato un sodalizio, in nome della ricerca contro il cancro. I Genomic Data Commons, il National Cancer Institute e la Foundation Medicine hanno firmato un accordo per condividere un database con il genoma di oltre 30.000 persone. Mirano così a ottenere un ulteriore strumento per creare trattamenti di precisione contro il cancro. Le diverse mutazioni nel DNA di un tumore determinano infatti come risponderà ai trattamenti. Ecco perché un sequenziamento rapido e preciso può fare la differenza tra il successo di una cura o il suo fallimento.

Il next-generation sequencing ha un ruolo fondamentale non solo nello screening prenatale, ma anche nelle nuove tecniche di diagnosi oncologica. Sono infatti in crescita i test del DNA volti a identificare i segni di un eventuale tumore in via di sviluppo. Il processo è però estremamente complesso e la grande sfida sta nel trovare un modo per accelerarlo.

Fonte: healthcaredive.com

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Basteranno 5 settimane di gravidanza per lo screening prenatale?

Un nuovo metodo di screening prenatale consente di individuare anomalie genetiche a 5 settimane di gravidanza. È l’annuncio dei ricercatori dell’Università dello Stato del Wayne, che hanno presentato un nuovo metodo per analizzare il DNA fetale presente nei trofoblasti. In questo modo è possibile individuare eventuali anomalie cromosomiche con tempistiche impossibili con altri metodi.

Il test si chiama TRIC, ovvero “Trophoblast Retrieval and Isolation from the Cervix” che significa: “recupero e isolamento dei trofoblasti dalla cervice”. Sfrutta lo stesso principio del pap-test: il medico raccoglie un piccolo campione di tessuto dalla cervice della donna. Il tessuto comprende i trofoblasti, ovvero le cellule che si occupano dello sviluppo della placenta del feto. Al loro interno è presente il DNA fetale, che gli scienziati possono raccogliere e sequenziare con il next generation sequencing. In questo modo sono in grado di ottenere una grande quantità di dati, senza però toccare il feto.

Gli autori dello studio hanno comparato i campioni raccolti in questa maniera con quelli ottenuti dalla madre e dalla placenta. È emerso che il TRIC consente di ottenere campioni ricchi di DNA fetale, caratterizzati quindi da un basso rischio di contaminazione. Il confronto con i risultati ottenuti dai diversi metodi rivela inoltre una grande accuratezza. Ciò che è più importante, questi risultati così accurati li si può ottenere anche solo 5 settimane di gravidanza. Gli altri metodi di screening prenatale richiedono invece tra le 14 e le 16 settimane di gravidanza per poterli eseguire.

Il test del DNA fetale TRIC è il primo di una nuova generazione di metodi di diagnosi prenatale non invasiva. In futuro lo si potrebbe usare non solo per individuare eventuali malattie genetiche, ma anche per determinare rischi di aborto spontaneo o di preeclampsia.

Fonte: medicaldaily.com

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Lo screening prenatale salva una bambina da un tumore

In Texas i medici hanno rimosso un tumore a una bambina ancora nel grembo materno. La bambina è nata in salute e sta bene, il tutto grazie a uno screening prenatale che ha mezzo in evidenza la massa tumorale.

Margaret Boemer, incinta di due gemelli, aveva già subito un aborto alla sesta settimana di gravidanza. Nonostante la morte del fratello, la bambina rimasta sembrava stare bene. Alla sedicesima settimana un controllo di routine ha però rivelato un teratoma sacrococcigeo. Si trattava di una rara forma di tumore, situata alla base del coccige del bambino e che, se lasciato andare, le avrebbe rubato sangue fino a provocare un attacco di cuore. Era quindi impensabile aspettare il termine della gravidanza per operare. L’unica alternativa era un intervento in utero.

A 20 settimane il tumore era grande quasi quanto il feto. Arrivati alla ventitreesima settimana, i medici hanno decretato che era impossibile aspettare oltre. L’intervento ha coinvolto un team di circa 20 medici, che hanno aperto l’utero fino a raggiungere la bambina. Nonostante le numerose difficoltà, sono riusciti a rimuovere circa il 90% del tumore e a richiudere l’utero. La bambina è così riuscita a rimanere all’interno della madre fino alla fine della gravidanza.

La bambina è nata mediante cesareo intorno alla trentaseiesima settimana, quindi lievemente in anticipo rispetto al termine. Ciononostante era cresciuta e stava abbastanza bene da permettere ai medici di rimuovere il resto del tumore. In futuro avrà bisogno di un’ulteriore operazione per ricostruire i muscoli pelvici, ma grazie a una celere diagnosi prenatale potrà crescere e stare bene.

Fonte: washingtonpost.com

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Un test del DNA contro la dipendenza da oppiacei?

Una compagnia farmaceutica californiana dichiara di aver trovato un modo per individuare la predisposizione alla dipendenza da oppiacei. Si tratta di un test del DNA e, secondo la compagnia, ha un’accuratezza di circa il 93%. Ci sono ancora dubbi riguardo l’efficacia del test, anche se la notizia ha generato un grande interesse.

Secondo Keith Humphreys, docente alla facoltà di Psichiatria dell’Università di Stanford, la predisposizione alla dipendenza da droghe corre in famiglia. Alcuni soggetti hanno reazioni molto intense fin dal primo uso ed è più facile che vengano sopraffatti dalla sostanza. In questi casi, non sempre si può individuare la causa di questa dipendenza nel contesto familiare o in esperienze precedenti. Ecco quindi che la spiegazione più credibile diviene la genetica.

Proove Opioid Risk è un prodotto che combina un test del DNA del paziente con osservazioni cliniche. A ogni paziente vengono fatte una serie di domande, per verificarne la predisposizione psicologica. Dopodiché si preleva un campione di DNA e si verifica se è presente una o più delle 12 anomalie genetiche ricollegabili alla dipendenza da oppiacei. Tutti e 12 i geni fanno parte del sistema limbico del cervello, che di solito si attiva in associazione al consumo di droga. Algoritmi specifici combinano tutte le informazioni e, secondo quanto sostenuto dall’azienda, si ottiene una stima della minore o maggiore predisposizione genetica alla dipendenza da oppiacei.

Per il momento Proove Opioid Risk deve ancora comparire su una rivista peer-reviewed. Diversi scienziati, tra cui il Dr. Richard Friedman del New York Times, hanno definito il prodotto poco serio. D’altra parte, altri mettono in luce il suo potenziale in ambito clinico. Ad una maggiore predisposizione alla dipendenza, infatti, potrebbe corrispondere un uso più cauto di antidolorifici e trattamenti per il dolore. Per conoscere la verità, bisognerà però aspettare studi più approfonditi.

Fonte: thedailybeast.com

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