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Aurora magazine

Malattie reumatiche: come affrontare una gravidanza?

Per le donne che soffrono di malattie reumatiche, affrontare una gravidanza è un grosso problema. Artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, artrosi provocano tantissimi dubbi e timori. “Sarò in grado di prendermi cura di mio figlio?” Ma soprattutto: “I farmaci che prendo gli faranno male?” Sono questi i timori che attanagliano il 50% delle donne in età fertile che soffrono di queste malattie. Un numero che non si può ignorare.

L’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna e di Genere (Onda) ha condotto un’indagine in 24 centri reumatologici presenti in Italia. L’indagine ha coinvolto 398 donne tra i 18 e i 55 anni affette da malattie reumatiche. Un campione ben lontano dall’immaginario comune, che vorrebbe le malattie reumatiche come un problema tipico della vecchiaia.

In realtà le malattie reumatiche interessano soprattutto le donne e compaiono in giovane età. Si pensa che gli ormoni femminili giochino un ruolo importante nel loro sviluppo, rendendole un problema tipico dell’età fertile. Anche per questo motivo, la gravidanza è un momento delicato per chi soffre di malattie reumatiche. Spesso la gestazione influisce sul decorso del disturbo e, nei casi peggiori, può essere a propria volta influenzata negativamente. Angela Tincani, ordinario di reumatologia all'Università di Brescia, è però ottimista.

Secondo la dottoressa Tincani, una corretta gestione medica e ostetrica può facilitare la gestazione. È però necessario programmare la gestazione in un periodo in cui la malattie è in remissione stabile. Inoltre, vanno scelti farmaci compatibili con le nuove condizioni della donna e con il feto. L’importante è che l’aspirante mamma segua le indicazioni di reumatologo e ginecologo.

Fonte: lastampa.it

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Due uteri per la stessa gravidanza

Bliss e Ashleigh Coulter sono una coppia statunitense che vive nel Nord del Texas. Cinque mesi fa hanno dato alla luce il piccolo Stetson, che ha trascorso la gestazione nell’utero prima di Bliss e poi di Ashleigh. Ciò significa che entrambe le donne hanno portato avanti la stessa gravidanza, grazie a un tipo di fecondazione in vitro chiamata Reciprocal Effortless Ivf.

La Reciprocal Effortless Ivf combina il trasferimento embrionale con la Effortless Ivf, nella quale la donna fa da incubatrice naturale. La combinazione delle due procedure è meno semplice di quello che sembra e ha un tasso di successo basso. Ciononostante, le due donne sono riuscite a portare a termine la gravidanza.

Bliss, di 37 anni, si è sottoposta alla stimolazione ormonale. I medici hanno prelevato gli ovuli e li hanno inseriti insieme allo sperma in un dispositivo chiamato InvoCell. Dopodiché hanno inserito la capsula nella vagina della donna, a livello della cervice. Nella IVF tradizionale tutto questo avviene in laboratorio, con costi più alti. L’ambiente caldo e favorevole del corpo di Bliss ha favorito lo sviluppo dei blastociti, rimasti dentro di lei per 5 giorni.

In un secondo momento, i medici hanno congelato i blastocisti e hanno aspettato che l’utero di Ashleigh fosse pronto per accoglierli. Dopo qualche giorno hanno effettuato l’impianto, che ha avuto pieno successo. La gravidanza è andata bene e il piccolo è nato nei termini, perfettamente in salute.

Il caso è un unicum, almeno per il momento. Di solito la donna che porta InvoCell è anche quella che porta a termine la gravidanza: è la prima volta che la pratica si accompagna al trasferimento embrionale.

Fonte: wired.it

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Le gravidanze multiple riducono il rischio di cancro al seno

Il numero di gravidanze e l’età cui si sono avute influenzano il rischio di tumore al seno. Diverse ricerche l’hanno provato, anche se mancano spiegazioni precise a riguardo. Uno studio sulle donne norvegesi e danesi potrebbe chiarire alcuni punti a riguardo. Secondo lo studio, le gravidanze multiple e di 33-34 settimane riducono il rischio di tumore al seno.

Il team di Mads Melbye dello Statens Serum Institute ha analizzato i dati di 2,3 milioni di donne danesi e di 1,6 milioni di donne norvegesi. I ricercatori hanno cercato gli effetti a lungo termine delle gravidanze, monitorando i casi di tumore al seno verificatisi almeno 10 anni dopo il parto. Hanno così rilevato un collegamento tra rischio di tumore al seno e durata della gravidanza.

Nelle donne che avevano avuto una gestazione di 33 settimane o meno, il rischio di tumore era del 2,4% più basso. In coloro con una gestazione di 34 settimane e più, il rischio era più basso del 163,6%. Il rischio calava del 16,9% in coloro che erano arrivate oltre la 34a settimana della seconda gestazione. Addirittura, scendeva del 37,7% nelle donne alla terza gravidanza. Pare quindi che portare avanti tante gravidanze riduca in maniera considerevole le probabilità di ammalarsi.

Dopo la 34a settimana di gestazione paiono non esserci benefici ulteriori. Allo stesso modo, non ci sono prove né a favore né contro l’allattamento al seno. Inoltre, il leader dello studio Melbye precisa che i dati tengono conto anche dei fattori socioeconomici. Nonostante questi, pare evidente che il numero di gravidanze portate oltre la 34a settimana influenzi in maniera importante il rischio di tumore.

La scoperta potrebbe aiutare a comprendere meglio i cambiamenti ormonali e cellulari che si verificano nell’ultima settimana di gestazione.

Fonte: newscientist.com

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Dal 2000 a oggi, raddoppiati i parti cesarei

Solo il 10-15% dei parti richiede l’utilizzo del cesareo. Eppure, uno studio della Aga Khan University mostra come i parti cesarei nel mondo siano raddoppiati dal 2000. Un trend preoccupante, dato che la procedura comporta una serie di rischi sia per la madre sia per il bambino. Se non ci sono alternative, questi rischi sono accettabili. Quando però mamma e bambino non hanno problemi, non c’è motivo per sottoporli a quella che rimane una procedura chirurgica.

La dottoressa Marleen Temmerman, autore principale dello studio, si dice preoccupata. Tra il 2000 e il 2015, il numero di parti cesarei è cresciuto del 4%, ovvero 30 milioni di nuovi nati contro i 16 milioni nel 2000. L’aumento di parti cesarei è concentrato nei paesi più ricchi, di solito per fini non medici. In cima alla classifica c’è il Sud-Asia, dove il ricorso alla procedura è aumentato del 6%. I paesi occidentali non sono però da meno.

I parti cesarei sono diffusi soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, in Europa e in America Latina. Solo in Nord America, il tasso di parti cesarei è passato dal 24% del 2000 al 32% del 2015. Addirittura, nazioni come Messico e Cuba hanno sfiorato un tasso del 40% di parti cesarei.

Il parto cesareo andrebbe usato solo in caso di urgenze mediche come sanguinamento inspiegato, pressione alta, bambino in una posizione anormale. Invece, negli ultimi anni si ricorre al cesareo anche per ridurre le tempistiche incerte del parto ed evitare i dolori. Questo spiega anche perché l’aumento sia concentrato soprattutto in paesi del primo mondo, nei quali la procedura è disponibile e alla portata di tutti.

Se 6 nazioni su 10 praticano troppi parti cesarei, 1 su 4 ne pratica troppo pochi. La scarsa accessibilità della procedura mette a rischio molte vite di mamme e bambini. Per questo motivo, bisognerebbe rendere il cesarei maggiormente disponibile in certi paesi e operare una sensibilizzazione sui rischi in altri.

Fonte: medicalxpress.com

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