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Aurora magazine

Trovato un collegamento tra disturbo genetico e ambiguità di genere

Una rara forma di disturbo genetico della ghiandola surrenale provocherebbe la mascolinizzazione genitale nelle femmine. L'ha scoperto un team della Scuola di Medicina Icahn, che ha effettuato un profilo clinico e genetico completo del deficit di 11 beta-idrossilasi. La scoperta potrebbe portare a un nuovo test di screening prenatale, per effettuare un trattamento che prevenga l'ambiguità genitale.

Il deficit di 11 beta-idrossilasi è una rara forma di iperplasia surrenale congenita. Provoca un deficit nella secrezione del cortisolo, con conseguente secrezione eccessiva dell'ormone surrenale maschile. Intorno alla 9° settimana di gravidanza, il fenomeno interferisce con lo sviluppo dei genitali dei feti femmina. L'interferenza provoca una mascolinizzazione dei genitali femminili, con conseguente ambiguità genitale.

Il disturbo genetico colpisce 1 bambino su 100.000 negli Stati Uniti. Il team ha raccolto i dati di 108 pazienti affetti da deficit di 11 beta-idrossilasi, scoprendo una ricorrenza maggiore tra quanti vengono da paesi dove ci si sposa tra consanguinei. Lo provoca infatti un gene recessivo, che il soggetto malato ha quindi ereditato da entrambi i genitori.

I ricercatori hanno identificato un'anomalia del cromosoma 8, responsabile appunto dell'enzima 11 beta-idrossilasi. Hanno quindi esaminato come ogni mutazione determinasse nei pazienti la maggiore o minore gravità dell'ambiguità genitale. Hanno inoltre identificato altri disturbi provocati da questo genere di mutazioni, come l'ipertensione e la maturazione anomala dello scheletro. Lo studio ha permesso anche di esaminare gli effetti del deficit sui maschi, che spesso passano inosservati.

Il dottor New e il suo team hanno sviluppato un test per la diagnosi prenatale non invasiva del disturbo. Si può usare il test a partire dalla 6° settimana di gravidanza, a partire da una sola goccia di sangue materno. Il test identifica il deficit di 11 beta-idrossilasi, permettendo di procedere con un trattamento farmacologico ad hoc. In questo modo si previene la mascolinizzazione dei genitali del feto nello stesso ventre materno.

Fonte: sciencedaily.com

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I tumori neuroendocrini del pancreas: cosa sono?

I tumori neuroendocrini si chiamano così in quanto colpiscono le cellule del sistema neuroendocrino. Queste sono cellule presenti in tutto l'organismo, con caratteristiche a metà tra le cellule nervose e quelle endocrine, che producono gli ormoni. A seconda degli organi nei quali si trovano, cambia anche la loro funzione.

I tumori neuroendocrini sono relativamente rari e colpiscono circa 5 individui ogni 100 mila. In Italia si parla quindi di circa 3 mila casi all'anno, meno dello 0,5% di tutti i tumori maligni registrati. Sono tumori a bassa incidenza, molto lenti nello sviluppo e che consentono di convivere con la malattia anche molto a lungo. Per questo motivo, a fronte di un numero basso di nuovi casi ogni anno, i malati sono decisamente di più. I soggetti più colpiti da questa forma di tumore sono gli anziani, ma non solo.

La patologia colpisce infatti soggetti di tutte le età, anche sotto i 40 anni. La forma di tumore neuroendocrino più comune è quella che colpisce il tratto gastro-entero-pancreatico. Il 70% delle diagnosi sono riconducibili a tumori neuroendocrini del pancreas, distinguibili tra tumori “ben differenziati” e “scarsamente differenziati”. I primi rappresentano il 90% dei casi, sono a lento accrescimento e curabili in gran parte dei casi. Quelli “scarsamente differenziati”, invece, tendono a sviluppare metastasi che spesso sono già presenti al momento della diagnosi.

Quando ci si trova di fronte a un tumore ben differenziato, è possibile agire con trattamenti lenti e meno violenti anche per il paziente. Nel caso di tumori scarsamente differenziati, invece, bisogna agire subito e in maniera aggressiva. Ecco perché è così importante lo sviluppo di nuovi test genetici, che individuino una predisposizione genetica come nel caso dei tumori alle ovaie.

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Trovati 3 nuovi geni coinvolti nei tumori del pancreas

Uno studio del centro Arc-Net dell'Università di Verona ha individuato 3 nuovi geni coinvolti nei tumori neuroendocrini del pancreas. Il team internazionale ha decodificato il genoma dei tumori neuroendocrini del pancreas, identificando nuove mutazioni genetiche legate al loro insorgere. La scoperta faciliterà la diagnosi e la classificazione della malattia. Consentirà inoltre di elaborare trattamenti personalizzati, pensati in base alle caratteristiche del singolo paziente.

Gli scienziati hanno sequenziato il genoma di circa 100 tumori, dopodiché hanno usato i dati di altri 60 campioni come metro di confronto. I dati hanno rivelato che il 17% dei casi erano legati a una mutazione genetica, contrariamente al 5% stimato all'inizio. Hanno inoltre mostrato 3 nuovi geni coinvolti, ovvero BRCA1, CHEK2 e MUTYH. Questi si aggiungono ad altri 2 geni noti per il coinvolgimento nella malattia, MEN1 e VHL. Le anomalie genetiche sono legate alle capacità di riparare il DNA e alla regolazione di crescita e invecchiamento cellulare.

I tumori neuroendocrini del pancreas sono eterogenei e spesso lenti a svilupparsi. Alcuni di questi, però, diventano aggressivi all'improvviso e senza un apparente motivo. Le analisi genetiche potrebbero aiutare a capire quali tumori sono più aggressivi. In questo modo i medici riserverebbero i trattamenti più duri ai casi realmente necessari. Consentirebbero inoltre di individuare mediante un test del DNA i soggetti più a rischio, così da effettuare diagnosi precoci e ridurre al minimo i rischi.

Qualcosa di analogo accade già per altre forme di tumore, come quello al seno e alle ovaie. Nel caso di questi tumori, si conoscono alcuni geni coinvolti nel loro sviluppo. È quindi possibile effettuare screening genetici specifici, che evidenzino una eventuale predisposizione e consentano di prendere le adeguate precauzioni.

Fonte: repubblica.it

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Prime linee guida internazionali per l'editing del genoma

La National Academy of Sciences (NAS) e la National Academy of Medicine (NAM) hanno diffuso le prime linee guida internazionali riguardanti l'editing del genoma. Il documento riguarda la manipolazione di sequenze di DNA in gameti ed embrioni nelle prime fasi di sviluppo, per il momento vietato. Con lo sviluppo delle tecniche di gene editing, però, diventa sempre più probabile una futura applicazione anche alle linee germinali.

Tecniche come la CRISPR hanno reso l'editing del genoma più preciso e meno costoso. Ciò ha aperto nuove opportunità sia nella ricerca sia nell'ambito clinico. Per il momento le applicazioni si limitano però a tessuti non germinali, che toccano quindi solo il paziente. L'applicazione sui tessuti germinali, invece, renderebbe i cambiamenti ereditabili e influenzerebbe anche le generazioni future. L'eventualità ha sollevato e solleva molti dubbi di natura scientifica ed etica, motivo per cui NAS e NAM hanno raccolto un team di esperti che ne valutasse le conseguenze.

Il documento supporta l'applicazione del gene editing al trattamento e alla prevenzione di gravi patologie e disabilità. Nel caso di modificazioni delle cellule germinali, mette però in evidenza i rischi di una deriva eugenetica e di conseguenze imprevedibili sulle generazioni future. Sono infatti necessari ulteriori studi per comprendere e quantificare il rischio di introdurre nuove anomalie genetiche per sbaglio. D'altra parte, l'editing del genoma potrebbe cancellare un gran numero di malattie genetiche oggi incurabili.

Per il momento l'editing genetico delle cellule germinali è vietato sia negli Stati Uniti che nel nostro paese. In Italia fanno eccezione le coppie portatrici sane di malattie genetiche sane, che possono anche accedere a test di screening prenatale prima dell'impianto dell'embrione. Nel caso di cambio delle norme, le linee guida raccomandano una serie di criteri prima di autorizzare l'editing di cellule germinali. Alcune di queste sono:

  • assenza di alternative valide;
  • applicazione solo ai geni associati ad una grave malattia;
  • divulgazione dei dati preclinici e clinici che indichino rischi e benefici;
  • monitoraggio dei soggetti coinvolti e dei loro figli

Fonte: osservatoriomalattierare.it

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