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Aurora magazine

Il Coronavirus è uguale alla Sars per il 79,5%

Un team dell’Istituto di Virologia di Whuan ha esaminato il genoma del Coronavirus. Secondo le prime analisi, il nuovo virus cinese ha molto in comune con il virus della Sars del 2002. I due virus hanno il 79,5% del genoma in comune e attaccano il sistema respiratorio in modo simile. La scoperta faciliterà lo studio della malattia e, di conseguenza, la ricerca di cure e vaccini.

Ad oggi, il Coronavirus ha infettato almeno 2.000 persone e il numero è in continua crescita. Pare infatti che il virus sia estremamente contagioso, molto più della famigerata Sars. Potrebbe essere anche meno pericoloso rispetto alla Sars, che tra il 2002 e il 2003 causò più di 800 morti e ondate di panico in tutto il mondo.

Un gruppo di ricerca coordinato dal dottor Peng Zhou ha analizzato la sequenza genetica del Coronavirus. Gli scienziati hanno prelevato del liquido dai polmoni di un paziente malato e isolato il virus. Sulla superficie del Coronavirus hanno trovato un recettore identico a quello della Sars, detto Ace2. Il recettore si lega alla superficie delle cellule polmonari, la penetra e apre la via al virus. In questo modo, il virus entra nella cellula e si diffonde nei polmoni.

L’intero processo è più efficiente, rispetto a quanto visto nel 2002: il Coronavirus si sta diffondendo più velocemente della Sars. Conosciamo però troppo poco del virus per esserne sicuri al 100%: non abbiamo né i tempi di incubazione né tutte le modalità di trasmissione. Probabilmente, molti casi non sono stati nemmeno diagnosticati ancora. Ciononostante, non dobbiamo farci prendere dal panico.

Mentre la Sars aveva un tasso di morte del 10%, quello del Coronavirus si assesterebbe sul 3%. Questo senza contare casi asintomatici e casi scambiati per normale influenza.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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Allattare riduce il rischio di menopausa precoce

Le donne che allattano al seno sono meno esposte al rischio di menopausa precoce. Lo afferma lo studio condotto dalla dottoressa Christine Langton, dell’Università del Massachusetts. La dottoressa conferma quindi diversi studi precedenti, che avevano trovato una correlazione tra menopausa, numero di gravidanze e allattamento.

Durante la gravidanza, l’ovulazione si ferma del tutto. Durante l’allattamento al seno, invece, rallenta. Entrambi i fenomeni preservano la riserva di ovociti della donna, che impiegano più tempo a consumarsi del tutto. Di conseguenza, anche la menopausa dovrebbe arrivare più tardi. Nonostante tutte queste informazioni, è difficile definire le tempistiche effettive della menopausa. Di solito servono circa 12 mesi per confermarla.

Per avere un’idea più chiara delle tempistiche effettive della menopausa, la dottoressa Langton ha analizzato i dati di 108.887 donne raccolti lungo 26 anni. Ogni due anni circa, i ricercatori raccoglievano informazioni sullo stato di salute delle donne. Queste si basavano su dati riguardanti anche gravidanza, allattamento al seno, sintomi ricollegabili alla menopausa. In questo modo, il team ha definito le tempistiche della menopausa in modo molto più preciso.

Secondo i dati raccolti, le donne che sono state incinte per almeno 6 mesi hanno meno probabilità di andare in menopausa precoce. Il trend si è dimostrato lineare: più sono state le gravidanze, minore è il rischio. Inoltre, le donne che hanno allattato per 7-12 mesi hanno mostrato il 28% di probabilità in meno di soffrire di menopausa precoce.

Fonte: newscientist.com

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In che modo la chemioterapia influenza la fertilità maschile?

Uno studio pilota guidato dalla professoressa Géraldine Delbès, dell’Institut National de la Recherche Scientifique (INRS) di Laval, si concentra sugli effetti della chemioterapia sulla fertilità maschile. Il team ha analizzato le conseguenze dei trattamenti condotti prima e dopo la pubertà.

Secondo alcuni studiosi, la chemioterapia influenza ben poco la fertilità maschile, se condotta in età prepuberale. Fino a una certa età, infatti, i testicoli sono dormienti e non producono spermatozoi. Lo studio in questione smentisce questa credenza: la chemioterapia influenza il modo in cui si dividono le cellule, con effetti nell’immediato e nel lungo periodo.

La professoressa Delbès ha studiato la fertilità di 13 pazienti, tutti sottoposti a chemioterapia da bambini. Ha confrontato i dati con quelli di volontari sani e di ragazzi sottoposti alle cure dopo l’inizio della pubertà. Inoltre, ha tenuto conto anche del tipo di farmaci usati per i trattamenti.

Da quanto è emerso, gli effetti dei trattamenti sulla fertilità non dipendono dall’età del paziente. La chemioterapia riduce la quantità e la qualità dello sperma prodotto in età adulta, anche se è stata condotta prima della pubertà. Non esiste un periodo in cui i testicoli sono immuni agli effetti negativi della terapia. Le antracicline paiono essere i farmaci che danneggiano di più gli spermatozoi, causando danni nel DNA anche anni dopo i trattamenti.

La chemioterapia è spesso l’unico trattamento disponibile, il che la rende pressoché inevitabile in tanti casi. Comprendere le effettive conseguenze sul fisico dei più giovani può però aiutare a prevenire e trattare eventuali casi di infertilità.

Fonte: inrs.ca

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Medici di tutto il mondo uniti per salvare un neonato

Un team di medici provenienti da tutto il mondo ha salvato la vita di un neonato. Il piccolo soffre di una rara malattia genetica che, in condizioni normali, uccide nell’arco di poche settimane. Oggi il bambino ha 3 anni ed è in remissione.

L’articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine espone gli sforzi di un team internazionale, unito in un caso di carenza di USP18. I medici hanno sviluppato nuove tecniche di diagnosi genetica e di immunoterapia per salvare un bimbo saudita. Il piccolo sarebbe dovuto morire poche settimane dopo il parto. Invece, è vivo e si sta riprendendo dalla malattia.

USP18 è un gene che codifica per una proteina coinvolta nel sistema immunitario, che regola la reazione alle infiammazioni. Quando è presente un’anomalia, si innescano delle infiammazioni incontrollate che uccidono in utero o poco dopo la nascita. I ricercatori hanno però scoperto che gli inibitori JAK1 sostituiscono USP18, evitando la progressione letale della malattia.

I ricercatori sono partiti da un giovane paziente in terapia intensiva. Il piccolo mostrava una versione anomala di USP18. Gli scienziati l’hanno analizzata e hanno individuato le conseguenze delle anomalie. Da qui sono risaliti alle funzioni della proteina, individuando quelle critiche nella progressione della malattia genetica. Ciò ha permesso loro di identificare i farmaci necessari per tenere il piccolo in vita, mentre cercavano possibili trattamenti più definitivi.

Dopo ulteriori analisi, i medici hanno iniziato a somministrare ruxolitinib due volte al giorno. Nel giro di due settimane, i sintomi sono regrediti e il bambino è migliorato. Il piccolo dovrà prendere il farmaco per tutta la vita, almeno finché non si troverà una cura definitiva. Quanto meno, potrà condurre una vita quasi normale.

Fonte: mountsinai.org

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