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Sindrome di Down: cause e diagnosi

La sindrome di Down è una condizione causata da un’alterazione cromosomica, che provoca ritardi nello sviluppo mentale e fisico. Ciò che la caratterizza è la presenza di un cromosoma di troppo nel nucleo cellulare, nello specifico nella coppia 21. L’anomalia in questione viene detta anche trisomia 21 e nel 98% dei casi è frutto di fattori ancora poco chiari, non riconducibili all’ereditarietà.

Esistono tre tipi di trisomia 21. Nel 95% dei casi si parla di trisomia 21 libera completa, per cui tutte le cellule del corpo presentano l’anomalia. Nel 2% dei casi si verifica la trisomia libera in mosaicismo, per cui ci sono sia cellule con l’anomalia che cellule normali. Nel 3% dei casi si parla invece di trisomia 21 da traslocazione, per cui il materiale genetico in più proviene da altri cromosomi. In quest’ultimo caso, uno dei genitori potrebbe essere portatore della traslocazione e quindi la condizione sarebbe ereditaria.

Le cause che provocano l’anomalia cromosomica sono ancora poco chiare. Esistono diverse teorie in merito, che riconducono la trisomia 21 all’azione di agenti chimici e infezioni. Nessuna di queste, però, è stata ancora avvalorata. Si sa che il 9% dei concepimenti presenta una trisomia, percentuale costante nelle diverse popolazioni e che non pare essere mutata nel tempo. Ciononostante, solo lo 0,6% dei bambini nasce con un’anomalia cromosomica; negli altri casi, si verifica un aborto spontaneo. Ciò fa pensare che l’anomalia sia un fenomeno legato al modo in cui l’uomo si riproduce, che non viene toccata dal mutamento delle condizioni ambientali.

È possibile usare apposite metodologie di diagnosi prenatale per individuare la presenza della trisomia nell’embrione. Negli ultimi anni si sta diffondendo una tecnica non invasiva, che parte da una goccia di sangue della madre. Sta sostituendo la molto più invasiva amniocentesi, almeno per quanto riguarda le prime fasi di screening.

I bambini affetti da sindrome di Down soffrono di alcuni ritardi mentali e nello sviluppo, di gravità variabile. Intervenendo fin da subito con un’apposita riabilitazione, è possibile recuperare parte delle funzioni linguistiche, motorie e neuropsicologiche. Grazie a ciò, i bambini down possono diventare adulti autonomi e ben integrati nel tessuto sociale.

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Malattia di Creutzfeldt-Jakob: di cosa si tratta?

La malattia di Creutzfeldt-Jakob è una forma di encefalopatia spongiforme umana. La sua forma più nota è il cosiddetto “morbo della mucca pazza”, che fece notizia tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000.

In realtà l'encefalopatia spongiforme bovina è quasi scomparsa. Oggi l’85% dei casi sono ricollegabili alla forma sporadica e il 10% a quella genetica. La malattia di Creutzfeldt-Jakob ha lunghi periodi di incubazione, del tutto privi di sintomi. Ciò la rende impossibile da individuare per tempo e sempre fatale.

La malattia provoca una rapida degenerazione del sistema nervoso centrale, senza però causare infiammazioni o reazioni del sistema immunitario. L’unico segno evidente è una forma anomala della proteina dei prioni, che si accumula nel liquido cerebrospinale e provoca lesioni molto caratteristiche. Ciò consente di formulare una diagnosi precisa e definitiva, che sfortunatamente arriva dopo la morte del paziente.

La malattia di Creutzfeldt-Jakob sporadica si manifesta intorno ai 60 anni e nel giro di 6 mesi uccide il paziente. Nonostante provochi demenza, mutismo, difficoltà visive, le normali analisi sono normali. L’elettroencefalografia può mostrare delle modificazioni periodiche, mentre nel 50% dei casi la risonanza magnetica nucleare evidenzia delle anomalie nella corteccia cerebrale. Non se ne conoscono le cause e per questa forma i ricercatori non hanno riscontrato mutazioni genetiche.

Il 10% dei casi di Creutzfeldt-Jakob è ricollegabile alla mutazione del gene PrP. È il gene che si occupa della codifica per la proteina prionica. Quando funziona male, la proteina ha più probabilità di accumularsi e di danneggiare le cellule nervose, portandole in breve tempo alla morte. Al momento manca un modo per diagnosticare la malattia nelle prime fasi: quando i sintomi diventano evidenti, il decorso è rapido e porta inevitabilmente alla morte.

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Atrofia muscolare spinale o SMA: cos’è e come si manifesta

L’Atrofia muscolare spinale è una patologia che provoca la morte progressiva delle cellule nervose del midollo spinale, i motoneuroni. Questi hanno il compito di trasmettere i comandi del cervello ai muscoli, consentendo quindi i movimenti volontari. Quando per qualche motivo non funzionano nella maniera corretta, diventa impossibile muoversi in maniera autonoma.

Esistono tre forme di SMA: la più grave è il Tipo 1, si passa poi al Tipo 2 e al Tipo 3, la più blanda. La SMA di Tipo 1 compisce circa la metà dei pazienti e si manifesta spesso fin dalla nascita. Il neonato mostra un’insufficienza respiratoria grave e progressiva, che rende difficoltosa se non impossibile la respirazione autonoma. Nel Tipo 2 il bambino riesce a stare seduto, ma non a camminare. In molti casi mostra complicazioni respiratorie e altri segna. Il Tipo 3 si manifesta dopo qualche anno e, almeno durante l’infanzia, consente di camminare.

Alla base della SMA c’è un’anomalia nei geni SMN1 e SMN2, che causa un deficit della proteina SMN. La proteina in questione è essenziale per la sopravvivenza dei motoneuroni. Una volta che manca, i motoneuroni cominciano a degenerarsi in maniera progressiva e irreversibile. Affinché si manifesti, l’anomalia genetica deve provenire da entrambi i genitori.

Non esiste al momento nessuna cura per la SMA. Negli ultimi anni la ricerca ha però chiarito molti meccanismi, consentendo di fare grossi passi avanti nelle terapie.

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L’anemia di Fanconi

L’anemia di Fanconi è una malattia genetica che provoca la carenza di globuli bianchi e rossi. Le cellule di chi ne è affetto, inoltre, mostrano una grande instabilità cromosomica, con segni evidenti di rotture e alterazioni. Ne conseguono ritardi nella crescita, malformazioni e una maggiore predisposizione ai tumori.

Chi ne è affetto tende a sviluppare leucemie, tumori al cervello e all’apparato genitale. Di solito si manifesta in età scolare e peggiora con il passare degli anni.

I ricercatori hanno individuato ad oggi 15 geni coinvolti nello sviluppo dell’anemia di Fanconi. Di questi uno è presente nel cromosoma X, provocando una variante che si manifesta nei maschi e rimane dormiente nelle femmine, che diventano portatrici sane. Le altre variazioni si trasmettono invece con modalità autosomica recessiva: se entrambi i genitori trasmettono il gene malato al bambino, questi si ammala.

Malformazioni e anomalie negli esami del sangue sono il primo campanello di allarme. La diagnosi vera e propria prevede un esame citogenetico, che serve per misurare quanto i cromosomi sono instabili in presenza di certi composti chimici. Nell’eventualità di casi presenti in famiglia, è anche consigliabile ricorrere a un eventuale test prenatale, che verifica la presenza dei geni responsabili.

Al momento, l’unico trattamento disponibile è il trapianto di cellule staminali, prelevale dal cordone ombelicale o dal midollo osseo.

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