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Aurora magazine

La target therapy contro la leucemia: quando il test del DNA salva la vita

Dal 19 al 21 ottobre 2016 si è tenuto a Rimini il Congresso della Società Italiana di Ematologia Sperimentale. Quest’anno il focus è stato su come i test del DNA stiano rivoluzionando i trattamenti contro la leucemia linfatica cronica. I 750 specialisti hanno parlato delle nuove terapie mirate che, grazie all’analisi delle mutazioni genetiche del paziente, agiscono su meccanismi biologici particolari.

Gli ultimi studi rilevano anomalie cromosomiche in quasi l’80% dei pazienti affetti da leucemia linfatica cronica. Queste anomalie sono estremamente importanti per determinare le caratteristiche specifiche della malattia, così da scegliere la strategia migliore per gestire la malattia. Ci sono in particolare due mutazioni genetiche per cui la prognosi è poco favorevole. Sono le anomalie del cromosoma 17p e del gene TP53, che hanno effetti simili, e del cromosoma 11Q. Si calcola che la mutazione di 17p interessi tra il 3% e il 10% dei pazienti che non hanno mai ricevuto un trattamento. Di questi, molti muoiono a 3 anni dall’inizio del trattamento. Ecco perché è importante individuare in tempi brevi la mutazione genetica presente, onde evitare i trattamenti meno efficaci e ridurre il rischio di recidiva.

Quanti presentano la mutazione del gene TP53 sono più refrattari a trattamenti tradizionali, come ad esempio la chemioterapia. Ecco quindi che si presenta la target therapy come alternativa. Si tratta di un trattamento mirato, che blocca la proteina BCL2 e provoca la morte programmata delle cellule tumorali. In particolare, il comitato europeo per la produzione di medicinali ad uso umano ha da poco dato il via libera al venetoclax. Il farmaco è indicato proprio per quanti presentano la delezione 17p o la mutazione TP53.

Durante il congresso sono stati presentati anche i primi trattamenti che vorrebbero essere definitivi. Per il momento le cure prescritte sono a vita, onde evitare ricadute e recidive. Adesso, invece, sono in lavorazione trattamenti con un minimo follow-up. I trial mostrano che i pazienti sottopostisi a queste cure non hanno avuto ricadute per anni. Ecco quindi che, anche grazie ai test genetici, i trattamenti stanno diventano sempre più su misura e sempre più duraturi negli effetti.

Fonte: repubblica.it

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Distinguere il DNA paterno da quello materno? Adesso si può

Un software elaborato tra Stati Uniti e Italia consentirà di distinguere il DNA paterno da quello materno. Per il momento i ricercatori l’hanno testato solo sul DNA dell’uva, ma l’obiettivo finale è ovviamente l’uomo. La nuova tecnica di mappatura genetica potrebbe infatti rivoluzionare la diagnosi prenatale.

Il software italo-americano si chiama Falcon e si basa su mappe genetiche derivanti da una tecnologia dell’Università della California, la PacBio. Per il momento è stato usato solo per determinare la genitorialità del vitigno cabernet sauvignon, “figlio” del cabernet franc e del sauvignon blanc. Falcon ha permesso di rilevare quali dei suoi geni derivano da un vitigno e quali dall’altro. In questo modo i ricercatori hanno creato una mappa delle influenze genetiche che hanno determinato le caratteristiche attuali del cabernet sauvignon.

L’applicazione finale di Falcon avrà ben poco a che fare con l’uva e con la viticoltura. Lo studio dei coordinatori Michael Schatz e Massimo Delledonne riguarda le malattie genetiche dell’uomo. Le piante sono solo un primo strumento per comprendere meccanismi particolari, da riportare in un secondo momento sull’uomo. Falcon consentirà di distinguere i cromosomi ereditati dalla madre da quelli del padre, cosa al momento impossibile. Le mappe genetiche ottenute con Falcon ricostruiranno la componente materna e quella paterna di ogni patrimonio genetico. Ciò faciliterà la diagnosi prenatale, la prevenzione e la cura di molte malattie genetiche ereditarie.

Con Falcon sarà possibile capire se la mutazione di un gene è presente su entrambe le copie o una sola. Questo significa capire se l’anomalia è stata ereditata da entrambi i genitori, da solo uno dei due e da quale. Si tratta di una tecnica destinata a rivoluzionare le analisi genetiche, migliorando le tecniche di diagnosi prenatale e di screening per la salute. 

Fonte: ansa.it

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Le mutazioni del cromosoma Y sono meno significative del previsto

Due ricercatrici dell’Arizona State University hanno dimostrato che le mutazioni nel cromosoma Y sono meno significative di quanto ritenuto fino a ora. Fino a questo momento si credeva che l’evoluzione fosse in gran parte dovuta ad anomalie nel DNA maschile. Le ricercatrici hanno però analizzato anche la frequenza e la distribuzione delle mutazioni, giungendo a una conclusione diversa.

Il cromosoma Y ha un tasso di mutazione più alto rispetto al cromosoma X. Ciò significa che presenta un maggior numero di mutazioni, che vengono ereditate e che si ripresentano nelle generazioni successive. In gran parte dei casi questo porta alla comparsa di anomalie cromosomiche in gravidanza, con l’insorgere di malattie anche molto invalidanti. In altri, però, le anomalie si dimostrano favorevoli per la sopravvivenza dell’organismo e contribuiscono all’evoluzione della specie.

Gli spermatozoi sono protagonisti di un gran numero di cicli di replicazione, al contrario delle cellule uovo. È quindi più facile che il genoma si modifichi e trasmetta le mutazioni alla prole. Si pensava quindi che il cromosoma Y avesse un’influenza maggiore sull’evoluzione della specie rispetto all’X. Si presupponeva, però, che Y e X avessero un’analoga distribuzione delle mutazioni lungo il DNA. Pooja Narang e Melissa A. Wilson Sayres hanno scoperto che non è così.

Il DNA dei cromosomi ha delle regioni non codificanti del genoma, per cui i geni sono maggiormente in grado di resistere all’insorgenza di mutazioni. Al contrario di quanto creduto fino a ora, le mutazioni sono meno frequenti vicino al gene e aumentano quando ci si allontana. Inoltre le mutazioni del cromosoma X presentano in media una maggiore frequenza vicino ai geni. Ciò significa che ai fini dell’evoluzione il cromosoma X ha una rilevanza maggiore di quanto si credesse.

Fonte: lescienze.it

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Troppa tireotropina aumenta il rischio di parto prematuro

Un gruppo di ricerca di Boston ha evidenziato che livelli troppo alti di tireotropina sono associati a un maggior rischio di parto prematuro. Il fenomeno è inoltre ricollegabile ad aborti spontanei, distacco della placenta, preeclampsia, ipertensione gestazionale. È quindi importante eseguire appositi test prenatali, così da individuare per tempo il problema e affrontare nella maniera adeguata.

Lo studio si basa sull’analisi retrospettiva di 6100 donne in gravidanza, di età media intorno ai 29 anni, curate presso il Boston Medical Center tra il 2007 e il 2014. I ricercatori hanno escluso dalle analisi qualsiasi donna con problemi alla tiroide conclamati. Si sono concentrati invece su coloro di cui erano disponibili i dati riguardanti i livelli di tireotropina. A partire da questi, hanno evidenziato eventuali legami con parti prematuri. È emerso che il 63% delle donne aveva fatto un controllo dei livelli di tireotropina nel primo trimestre. Di queste il 6,3% aveva livelli troppo alti dell’ormone e aveva evidenziato un maggiore rischio di parto prematuro.

Secondo lo studio, le donne con livelli di tireotropina sopra la media hanno il 52% in più del rischio di partorire in anticipo. Queste nuove evidenze hanno aperto il dibattuto sulla necessità di uno screening universale, effettuando test prenatali per l’ipotiroidismo su tutte le donne in gravidanza. Alcuni medici ritengono, invece, che i test siano necessari solo per le donne con sintomi ricollegabili all’ipotiroidismo. In quest’ultimo caso, però, il rischio è di far passare inosservati casi meno evidenti ma comunque pericolosi.

Fonte: medscape.com

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