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Aurora magazine

L’aumento dello stress riduce le probabilità di concepire

Uno studio dell’Università di Louisville rivela che lo stress riduce del 40% la possibilità di concepire. L’articolo pubblicato su Annals of Epidemiology riporta le analisi effettuate su 400 donne, seguite in media per 8 cicli mestruali. I soggetti esaminati hanno tra i 18 e i 40 anni, sono sessualmente attive e seguono stili di vita diversi.

Ciascuna donna coinvolta nello studio ha tenuto un diario personale, su cui ha segnato i dettagli riguardanti il ciclo, il numero di rapporti sessuali, il tipo di contraccezione. Le donne hanno inoltre messo in evidenza il livello di stress e l’eventuale consumo di alcool, caffeina e nicotina. I ricercatori hanno quindi stimato i livelli di stress lungo tutto il ciclo mestruale. Nelle donne più stressate, i ricercatori hanno evidenziato una minore fertilità durante la finestra ovulatoria. Il dato è risultato indipendente da fattori quali la frequenza dei rapporti, l’età e l’indice di massa corporea.

Secondo i dati raccolti, i mesi più “stressanti” mostrano una probabilità di concepire inferiore del 40% rispetto agli altri. Il dato si aggrava se le condizioni di stress si verificano durante la finestra ovulatoria. Lo studio dimostra quindi l’importanza del benessere emotivo in gravidanza. Un benessere che è possibile cercare attivamente, mediante l’esercizio fisico e tecniche di rilassamento.

Fonte: uoflnews.com

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Scoperte nuove anomalie nei feti provocate dal virus Zika

Uno studio condotto dalla dottoressa Fernanda Tovar-Moll rivela nuove anomalie provocate dal virus Zika nei feti. Nonostante la microcefalia sia la conseguenza più evidente del virus, sono emerse altre complicazioni meno visibili. Lo scopo è comprendere meglio l’azione del Zika, verificando eventuali conseguenze anche in fase post-natale.

Il virus Zika pare essere più pericoloso nel primo trimestre di gravidanza. In questa fase passa dalla madre al feto e ne provoca il mancato sviluppo del cervello, con conseguente microcefalia. Lo studio analizza però le altre conseguenze del virus. I ricercatori si sono concentrati in particolare su 17 feti e neonati affetti da Zika, cui se ne sono aggiunti 28 per cui il contagio era solo sospetto.

I soggetti hanno mostrato calcificazione intra craniali e ventricolomegalia, ovvero uno sviluppo anomalo dei ventricoli del cervello. Problemi riscontrabili in misura più o meno marcata in tutti i bambini. Il 94% dei casi accertati di Zika ha mostrato anche anomalie del corpus callosum, il nervo che mette in comunicazione l’emisfero destro e quello sinistro del cervello. Inoltre tutti i bambini hanno mostrato anomalie nel modo in cui i neuroni si muovono nel cervello. Ciononostante, non per tutti si è riscontrata una circonferenza cranica ridotta, benché sia forse il maggior segno distintivo del virus.

In almeno in tre casi i ricercatori hanno riscontrato una circonferenza del cranio normale, a fronte però di una grave ventricolomegalia. Ciò significa che il volume del cervello era ridotto, ma che gli spazi vuoti erano pieni di fluido che aumentava il volume dei ventricoli. Il sospetto è che il tipico collasso del cranio dei bambini malati sia dovuto in parte anche alla ventricolomegalia di cui tutti soffrono. Durante lo sviluppo, il cervello ha una crescita estremamente ridotta. A questa si unirebbe una forma di ventricolomegalia che gonfierebbe la testa in un primo momento, riducendosi in un secondo momento. Ciò provocherebbe la decompressione della testa e la forma anomala delle ossa del cranio.

Dalla ricerca emerge che singole sessioni di ultrasuoni potrebbero essere insufficienti per mostrare le anomalie provocate dal virus sul feto. Per individuare i primi sintomi evidenti potrebbe essere necessaria una serie di sessioni, così da seguire passo a passo lo sviluppo del feto.

Fonte: eurekalert.org

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Atrofia muscolare spinale: nuovo modello per studiarne le cause

Un gruppo di ricerca dell’Ibbr-Cnr di Napoli ha sfruttato mini organismi per lo studio dell'atrofia muscolare spinale (detta anche Sma). Sono riusciti ad analizzare in vivo gli eventi che precedono la morte dei neuroni. Hanno così provato la correlazione tra la malattia e l’assenza del gene Smn1, teorizzata in precedenza ma mai provata.

L’atrofia muscolare spinale è una malattia rara neurodegenerativa mortale che si manifesta nei primi mesi di vita. Provoca la morte dei neuroni motori del midollo spinale, impedendo al bambino di compiere anche i movimenti più semplici. Non esistono trattamenti efficaci ed è oggi una delle cause più comuni di mortalità infantile. Ecco perché questo studio potrebbe rappresentare una svolta nella ricerca di una terapia. Per la prima volta, i ricercatori sono riusciti a monitorare la morte neuronale e a evidenziarne le cause.

Studi precedenti avevano già teorizzato il ruolo del gene Smn1 nello sviluppo della malattia. La ricerca in questione analizza il comportamento di cellule prive di questo gene e prova questa ipotesi. L’assenza del gene provoca infatti un meccanismo di morte programmata, alla base dello sviluppo della malattia. Per contrastare il fenomeno si potrebbe sfruttare un piccolo animale invertebrato, il Caenorhabditis elegans. L’animale è un importante modello genetico, quando si parla di processi neurodegenerativi. Inoltre, il suo gene e quello umano sono interscambiabili, operazione che i ricercatori hanno effettuato sui mini organismi modello.

Dallo studio è emerso il ruolo di un altro gene, Plastin3. Questo ha un ruolo nell’impedire la morte dei neuroni. Infatti, i pazienti dotati di questo gene in quantità maggiore soffrono di varianti meno gravi della malattia. Tutte queste scoperte rappresentano un passo importante per l’elaborazione di nuovi trattamenti.

Fonte: lescienze.it

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Parte la sperimentazione umana per la Crispr

Parte in Cina il primo trial clinico per la Crispr sull’essere umano, nel contesto di un nuovo trattamento contro il tumore al polmone. Lo scopo è modificare alcune cellule scelte del sistema immunitario, affinché colpiscano con maggior forza le cellule tumorali.

La Crispr è una tecnica di editing genetico sviluppata da Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier. La tecnica usa enzimi tipici delle cellule batteriche, in modo da tagliare e sostituire porzioni limitate di Dna. Ciò permette di correggere le cellule, eliminando il materiale genetico difettoso e sostituendolo con quello corretto. Con questo approccio si può quindi agire alla radice di molte malattie provocate da mutazioni genetiche, o modificare determinate cellule in modo che acquisiscano nuove funzioni.

Negli ultimi 10 anni, la lotta al cancro ha tratto molti benefici dall’uso degli immunoterapici nei trattamenti. L’idea di base è addestrare il sistema immunitario, in modo che si concentri contro le cellule tumorali. L’immunoterapia serve nello specifico per accendere e spegnere certi meccanismi del sistema immunitario, affinché agisca con più forza contro i tumori. Alcuni trattamenti contro melanoma e tumore ai polmoni prevedono già oggi l’utilizzo di queste tecniche. L’editing genetico usa gli stessi principi dell’immunoterapia e li perfeziona. Rimuove infatti in blocco le sezioni di Dna che producono determinate proteine che frenano il sistema immunitario, così da rinforzarne le risposte.

Il trial cinese prevede la raccolta di campioni di linfociti T dai pazienti. Dopodiché i ricercatori bloccano il gene che codifica la proteina PD-1, affinché il sistema immunitario agisca con forza contro le cellule tumorali. A breve anche il National Institute of Health statunitense darà il via a sperimentazioni simili.

Fonte: fondazioneveronesi.it

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