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Aurora magazine

Gli screening prenatali dovrebbero essere più estesi?

Negli ultimi anni stanno prendendo sempre più piede i test di screening prenatale non invasivi per la sindrome di Down. Secondo uno studio del Murdoch Children's Research Institute (MCRI), a questo test ormai diffusissimo si dovrebbero aggiungere anche altri test genetici.

I test del DNA fetale per la diagnosi prenatale della sindrome di Down sono proposti a tutte le puerpere sopra una certa età. Nel caso di altre malattie genetiche, invece, si pensa che il problema riguardi solo chi ha giù avuto casi in famiglia. Eppure sindrome dell’X fragile, atrofia muscolare spinale e fibrosi cistica hanno un tasso di rischio comparabile a quello della sindrome di Down, se messe insieme.

I test genetici per le tre malattie genetiche ereditarie sono disponibili sin dal 2012. Di solito li si consiglia a quanti hanno già sospettano di essere portatori sani. Un modo di agire che però trascura una grossa fetta della popolazione, magari ignara della propria storia familiare. Il principale autore dello studio, il professor David Amor, ritiene che questi test dovrebbero essere disponibili per tutte le coppie che desiderano fare un figlio.

Dai dati raccolti è emerso che 1 persona su 20 tra quelle analizzate è portatrice di una delle tre malattie genetiche. L’88% di questi individui non era a conoscenza del rischio, non essendo al corrente di alcun caso in famiglia. Quindi nessuno di loro avrebbe effettuato il test genetico, se non fosse stato coinvolto nel test.

Tra le coppie analizzate, 1 su 240 presentava un alto rischio di trasmettere la malattia alla prole. Inoltre, i test di screening prenatale hanno rivelato la presenza di una delle patologie in circa 1 donna incinta su 1000. Si tratta di numero paragonabili all’incidenza della sindrome di Down.

Fonte: medicalxpress.com

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Un articolo spiega come funziona lo screening prenatale non invasivo

L’uso dei test di screening prenatale non invasivo sta aumentando di anno in anno. Ecco quindi che aumentano anche le preoccupazioni legate a una scarsa comprensione di queste tecniche, sia da parte dei medici che dei pazienti. Per questo motivo, The Journal of Applied Laboratory Medicine ha pubblicato un articolo esplicativo a riguardo. L’obiettivo è fornire ai medici che seguono la rivista tutte le informazioni necessarie per rassicurare anche i pazienti più ansiosi.

Grazie a una goccia di sangue materno, un test di screening prenatale non invasivo consente di individuare le anomalie genetiche più comuni. Sindrome di Down e altre sono diagnosticabili in utero senza rischi né per la madre né per il bambino. All’inizio il test era raccomandato in particolare per le gravidanze ad alto rischio. Sempre più studi dimostrano però la sua utilità anche nelle gravidanze a basso rischio.

Nel 2016, l’American College of Obstetricians and Gynecologists ha rinnovato le proprie linee guida. Adesso raccomanda di consigliare i test del DNA fetale a tutte le donne in attesa, indipendentemente dall’età. Nonostante il successo raccolto, però, questa tecnologie è però ancora poco compresa.

Nell’articolo un team di esperti dell’Università di Washington a Seattle spiega come i medici dovrebbero affrontare i test. Ancora troppe poche persone capiscono che lo screening prenatale non invasivo è solo un elemento della diagnosi. Se un risultato negativo dà la certezza che il feto sia sano, non è matematico il contrario. In caso di esito positivo del test, la cosa migliore è procedere con ulteriori analisi che confermino o smentiscano i primo risultato.

Gli autori dello studio mettono in guardia anche sull’uso dei test per malattie genetiche rare. In questi casi è bene procedere con cautela. Esistono infatti molti meno studi sull’efficacia di questi test, piuttosto che di quelli applicati alla sindrome di Down o di Evans.

Fonte: aacc.org

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Sindrome di Angelman escludibile con il test del DNA fetale

È possibile misurare il rischio che il feto sviluppi la sindrome di Angelman con uno screening prenatale non invasivo. Secondo uno studio del Texas Children’s Hospital, basterebbe un test del DNA fetale per escludere la comparsa del disordine.

I test del DNA fetale sono disponibili dal 2011. Li si usa per individuare le anomalie cromosomiche alla base di sindrome di Down, sindrome di Edward e sindrome di Patau. Poiché analizzano il DNA fetale presente nel sangue materno, sono del tutto sicuri sia per la madre che per il bambino. Grazie allo studio, pare che il numero delle malattie individuabili in questa maniera sia appena cresciuto.

I medici usano il test del DNA fetale per verificare l’eventuale presenza di cromosomi di troppo. In più, il test è utile anche per diagnosticare disturbi provocati dall’assenza di parti di cromosomi. I ricercatori texani hanno deciso di verificare se il test potesse predire anche altri disordini.

Hanno analizzato 712 campioni già testati con il test del DNA fetale. Tutti i campioni erano stati catalogati come ad alto rischio di anomalie cromosomiche. Lo scopo era verificare se l’eventuale presenza di falsi positivi e quali fossero i disordini presenti.

I test del DNA fetale non sono riusciti a individuare la presenza della sindrome di Angelman con sufficiente precisione. Lo stesso vale per altri disturbi, come la sindrome di Cri-du-Chat e la sindrome di Prader-Willi. Si sono però rivelati molto efficaci per escludere la presenza della Angelman.

La scoperta è rilevante in particolare per quanti hanno avuto esempi di sindrome di Angelman in famiglia. In questi casi, il test del DNA fetale è in grado di escludere la presenza della sindrome con un precisione vicina il 100%.

Fonte: angelmansyndromenews.com

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Analizzare il muco cervicale svela il rischio di parto prematuro

Circa il 18% dei bambini nascono prematuri. Un milione di questi non sopravvivono, mentre i rimanenti rischiano conseguenze permanenti. Ad oggi non c’è nessun test di screening prenatale che possa dire con certezza se una donna partorirà prima del tempo.

Gli scienziati del MIT hanno scoperto differenze importanti nel muco cervicale delle donne che hanno partorito pretermine. L’analisi potrebbe essere un modo sicuro per calcolare il rischio di parto prematuro. In questo modo i medici potrebbero agire per ritardare il travaglio o preparare le cure per il piccolo.

Uno studio precedente rivelava che il 25-40% delle nascite premature sono dovute a infezioni. In questi casi, i microbi raggiungono l’utero attraverso il canale cervicale, superando la barriera del muco cervicale. Inoltre, le donne con gravidanze a rischio hanno mostrato di avere uno strato di muco molto più debole ed elastico. Tutto questo fa pensare che analizzare il muco prima del parto potrebbe aiutare a prevenire eventuali problemi.

Gli scienziati hanno analizzato il muco cervicale di due gruppi di pazienti da poco diventate mamme. Le donne del primo gruppo avevano avuto gestazioni a basso rischio, quelle del secondo gruppo ad alto rischio. Le donne del primo gruppo avevano partorito nei termini, le altre tra la 24a e la 34a settimana. I dottori sono riusciti a distinguere i campioni presi dalle une piuttosto che dalle altre solo studiandone la permeabilità.

La barriera mucosa delle donne con gravidanze ad alto rischio è risultata più permeabile della media. Ciò facilita l’ingresso di batteri e microbi, con conseguenti infezioni pericolose per il bambino. Inoltre, il muco alterato pare essere meno in grado di trattenere cellule immunitarie e anticorpi che potrebbero combattere l’infezione.

Fonte: web.mit.edu

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