L’uso dei test di screening prenatale non invasivo sta aumentando di anno in anno. Ecco quindi che aumentano anche le preoccupazioni legate a una scarsa comprensione di queste tecniche, sia da parte dei medici che dei pazienti. Per questo motivo, The Journal of Applied Laboratory Medicine ha pubblicato un articolo esplicativo a riguardo. L’obiettivo è fornire ai medici che seguono la rivista tutte le informazioni necessarie per rassicurare anche i pazienti più ansiosi.
Grazie a una goccia di sangue materno, un test di screening prenatale non invasivo consente di individuare le anomalie genetiche più comuni. Sindrome di Down e altre sono diagnosticabili in utero senza rischi né per la madre né per il bambino. All’inizio il test era raccomandato in particolare per le gravidanze ad alto rischio. Sempre più studi dimostrano però la sua utilità anche nelle gravidanze a basso rischio.
Nel 2016, l’American College of Obstetricians and Gynecologists ha rinnovato le proprie linee guida. Adesso raccomanda di consigliare i test del DNA fetale a tutte le donne in attesa, indipendentemente dall’età. Nonostante il successo raccolto, però, questa tecnologie è però ancora poco compresa.
Nell’articolo un team di esperti dell’Università di Washington a Seattle spiega come i medici dovrebbero affrontare i test. Ancora troppe poche persone capiscono che lo screening prenatale non invasivo è solo un elemento della diagnosi. Se un risultato negativo dà la certezza che il feto sia sano, non è matematico il contrario. In caso di esito positivo del test, la cosa migliore è procedere con ulteriori analisi che confermino o smentiscano i primo risultato.
Gli autori dello studio mettono in guardia anche sull’uso dei test per malattie genetiche rare. In questi casi è bene procedere con cautela. Esistono infatti molti meno studi sull’efficacia di questi test, piuttosto che di quelli applicati alla sindrome di Down o di Evans.
Fonte: aacc.org