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Aurora magazine

Il sangue cordonale “predice” i problemi dei bambini pretermine

Un team dell'Università dell'Alabama ha individuato dei biomarker nel sangue cordonale che aiutano a predire alcuni problemi dei bambini pretermine. Insieme allo screening prenatale, i biomarker potrebbero evidenziare i rischi di morte in culla e di anomalie polmonari.

La displasia broncopolmonare è una anomalia polmonare che affligge circa il 25%-50% dei bambini nati prematuri. Molti di questi necessitano di una ossigenoterapia prolungata. La terapia salva loro la vita, ma interferisce con la maturazione dei polmoni ancora in via di sviluppo. Infatti gli alveoli concludono la maturazione durante le ultime 14 settimane di gestazione e le prime 5 dopo il parto. Con l'ossigenoterapia la maturazione si blocca, il che aumenta il rischio di patologie polmonari croniche.

I ricercatori hanno esaminato le cellule endoteliali venose del sangue cordonale di 69 neonati nati alla 26a settimana. I bambini pesavano in media meno di 1 kg. Di questi 34 sono sopravvissuti senza displasia broncopolmonare. Dei 35 rimanenti, 24 sono sopravvissuti con la displasia, mentre 11 sono morti prima di svilupparla.

Le cellule endoteliali venose sono state messe in coltura e testate per le funzioni energetiche mitocondriali e la generazione ossidante. I mitocondri sono degli organelli interni alle cellule, che regolano il metabolismo cellulare. Lo stress ossidativo li può danneggiare, provocando il rilascio di forme pericolose di specie reattive all'ossigeno.

Le cellule dei neonati con la displasia o morti avevano un minore consumo di ossigeno. Producevano quindi più superossido in seguito all'esposizione di troppo ossigeno, rilasciando anche più perossido di idrogeno. Il superossido e il perossido d'idrogeno sono entrambi tipi di specie reattive all'ossigeno, che hanno danneggiato il DNA mitocondriale.

I danni al DNA mitocondriale hanno alterato le funzioni dei mitocondri. Le alterazioni potrebbero quindi essere usate come biomarker per lo sviluppo della displasia broncopolmonare. Se individuate per tempo, consentirebbero di modificare le strategie terapeutiche.

Fonte: uab.edu

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Aumento dei casi di sifilide: fondamentali gli screening prenatali

Il Dipartimento della Salute della Virginia riporta un aumento del 40% dei casi di sifilide tra il 2015 e il 2016. Il trend è comune a tutti gli Stati Uniti ed è sintomo di un calo generale dell'attenzione verso le malattie sessualmente trasmissibili. Secondo i medici, il pericolo è diffuso non solo tra gli adulti, ma anche tra i neonati, a rischio dai contagio madre-figlio. Per questo motivo gli screening prenatali sono più importanti che mai.

La sifilide ha sintomi simili a quelli di tipologie di vario genere, il che ne rende la diagnosi spesso complicata. Le caratteristiche principali della malattia sono i rash epidermici, i linfonodi ingrossati, la febbre, le piaghe in zona genitale. Se non trattata, la sifilide può provocare danni permanenti sia nella persona che in una eventuale prole.

La trasmissione della sifilide di madre in figlio è detta sifilide congenita e può risultare letale per i neonati. Secondo i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, nei soli Stati Uniti i casi di sifilide congenita sono aumentati del 6% tra il 2014 e il 2015. L'impennata dei casi di neonati malati contribuisce all'aumento dell'incidenza generale della malattia. È inoltre sintomo di un abbassamento dei livelli di prevenzione.

La regola numero uno rimane usare le necessarie misure di prevenzione verso le malattie sessualmente trasmissibili. In caso di gravidanza, un percorso di screening prenatale può comprendere anche i test per le sifilide, gonorrea e clamidia. In questo modo è possibile prendere i dovuti provvedimenti per garantire la salute di madre e bambino.

Fonte: dailypress.com

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Oltre la predisposizione: trovati i virus che scatenano la celiachia

Uno studio delle Università di Chicago e di Pittsburgh rivela il ruolo dei reovirus nello sviluppo della celiachia. La malattia ha un’origine genetica, ma la comparsa è collegata a un’infezione virale. La scoperta potrebbe portare allo sviluppo di un vaccino, da somministrare ai bambini ad alto rischio.

La celiachia è una malattia autoimmune che provoca l’intolleranza al glutine, una proteina contenuta nel grano. Si sa che ha un’origine genetica, ma la predisposizione da sola non basta affinché si manifesti. Secondo lo studio, a dare l’input alla malattia sarebbe un virus di per sé asintomatico e innocuo per i soggetti privi dell’anomalia genetica. Nei soggetti già predisposti accelererebbe la comparsa della celiachia.

Quasi tutti gli esseri umani subiscono un’infezione da reovirus nel corso della vita. In molte persone l’infezione avviene addirittura in età prescolare e di rado sfocia in una vera e propria malattia. I ricercatori hanno testato due ceppi di reovirus su cavie predisposte alla celiachia. Hanno così scoperto che uno dei due riduce la tolleranza al glutine e, nel caso sia presente il gene della intolleranza al glutine, ne provoca la comparsa.

I ricercatori ritengono che l’infezione da reovirus induca una reazione infiammatoria intestinale che porta allo sviluppo della malattia. I pazienti celiaci presentano infatti un eccesso di anticorpi specifici per combattere i reovirus e di molecola IRF1. La molecola riduce la tolleranza al glutine e, quando si introduce il glutine nella dieta, scatena una reazione immunologica.  Il sistema immunitario etichetta quindi il glutine come una sostanza dannosa per l’organismo. Tutto questo culmina nel manifestarsi della malattia.

Tra i ricercatori coinvolti c’è anche la dottoressa Discepolo, dell’università Federico II di Napoli.

Fonte: corriere.it

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Prevenire il Papilloma Virus è più facile con il test Hpv

In 75 anni il Pap test ha salvato la vita a milioni di donne in tutto il mondo. Il test consiste in un esame morfologico di cellule del collo dell'utero, per individuare anomalie. In questo modo è possibile prevenire il tumore del collo dell'utero. Il test richiede però un citologo esperto affinché sia efficace. Ecco perché l'arrivo del test Hpv è destinato a cambiare il mondo della prevenzione per milioni di donne.

Il test Hpv è un test virologico fatto su cellule del collo dell'utero. Diagnostica l'infezione da papilloma virus umano e, rispetto al Pap test, individua un maggior numero di lesioni precancerose e in meno tempo. Ciò consente di allungare l'intervallo tra un test di screening e l'altro, passando dagli attuali 3 anni a 5. Nel caso in cui il test Hpv individui un'anomalia nel collo dell'utero, si effettua il Pap test sui tessuti già prelevati. Se anche il Pap test risulta positivo, si passa alla colposcopia. In caso contrario, si ripete il test Hpv 1 anno dopo. Se il test non rileva niente, si ha a che fare con una del 80-90% delle infezioni che si risolvono da sole.

Il test di screening Hpv esiste da diversi anni, ma sta arrivando in Italia in maniera graduale. Si prevede una diminuzione di dieci volte del numero annuale di Pap test. I citologi oggi attivi si occuperanno degli accertamenti per le donne risultate positive per il primo test. Il numero di colposcopie annuali dovrebbe rimanere invariato, anche se concentrato su donne selezionate meglio. Nonostante il test sia più costoso del Pap test, si calcola un risparmio del 30% sui costi organizzativi e del 20% sui costi dei prelievi. Il merito sarà anche della minore frequenza con cui sarà necessario effettuare il test.

Adesso è importante informare le donne sui cambiamenti in corso e su cosa comportano. In particolare, è importante che chi risulta positiva per il test Hpv capisca che non è sinonimo di malattia. È inoltre fondamentale comprendere che è possibile contrarre il virus anche mediante rapporti non completi e di tipo orale.

Fonte: repubblica.it

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