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Terapia genica: cos’è

La terapia genica nasce con lo scopo primario di affrontare le malattie genetiche. Nonostante questo, negli ultimi anni stanno fiorendo le applicazioni a patologie come infarto, tumori, Alzheimer e Parkinson. Il merito di questo successo è la flessibilità dimostrata dalla tecnica, applicabile ovunque ci sia un gene difettoso da riparare.

La tecnica consiste nel prelievo di alcune cellule difettose dal paziente, che vengono in un secondo tempo corrette e di nuovo introdotte nell’organismo. A questo scopo, gli scienziati usano un virus reso innocuo per introdurre il DNA corretto nelle cellule. Il DNA guarisce le cellule trattate, che una volta nell’organismo si moltiplicano e sostituiscono quelle malate. Al di là della teoria, ci sono ovviamente degli ostacoli che rendono la prassi molto più complessa.

I primi successi risalgono al 1990, quando Claudio Bordignon usò la tecnica su una bambina malata di Ada-Scid. Nonostante una prima guarigione, l’effetto terapeutico delle cellule sparì alla fine del loro ciclo vitale. In un secondo momento, gli statunitensi French Anderson e Michael Blaise resero l’effetto permanente modificando le staminali del midollo osseo. Anche questa volta, i risultati furono solo parziali: le sperimentazioni della nuova tecnica provocarono diverse morti e si fermarono.

Il 2009 fu l’anno del nuovo inizio per la terapia genica. Uno studio dell’Istituto Telethon di genetica medica (Tigem) di Napoli restituì la vista a un bambino affetto da amaurosi di Leber. Il merito fu della scoperta di un nuovo vettore per il trasporto del DNA nella cellula, più sicuro rispetto a quelli precedenti. Il virus usato non era però perfetto, il che richiese nuovi esperimenti per individuare delle alternative. Alcuni di questi sono ancora in corso.

Una grande svolta per le terapie geniche fu lo studio del team di Luigi Naldini nel 2013. Nandini annunciò di aver curato sei bambini a rischio di malattie genetiche rare. Tre avevano il gene della leucodistrofia metacromatica e altre tre della sindrome di Wiskott-Aldrich. Gli scienziati corressero le cellule staminali e le usarono per sostituire quelle malate, bloccando lo sviluppo delle malattie.

Ad oggi i passi in avanti nella terapia genica sono molti. Sono in via di sviluppo farmaci per il trattamento di tumori, leucemie e malattie genetiche.

Fonte: focus. it

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Cannabis terapeutica: cos’è e come funziona

Non tutti sanno che c’è una differenza importante tra cannabis per uso ricreativo e cannabis terapeutica. Le due tipologie sono diverse non solo per lo scopo dell’assunzione, ma soprattutto per i principi chimici contenuti.

La cannabis è una pianta erbacea che può raggiungere anche i 5 metri di altezza, con un forte odore aromatico. Ha foglie palmato-composte dotate di lamine sottili e con i caratteristici margini seghettati. A seconda della varietà, però, la forma e il numero delle lamine fogliari varia notevolmente. Le foglie delle varietà più diffuse hanno tra i 5 e i 13 segmenti, di solito.

La marijuana ha proprietà riconosciute da decenni. L’assunzione stimola l’appetito riduce la nausea e controlla l’ansia. Per questo motivo è particolarmente utile per i pazienti che si stanno sottoponendo alla chemioterapia. È inoltre utile per alleviare i sintomi della sclerosi multipla. Il merito è di due sostanze presenti nelle foglie, il Thc e il cannabidiolo.

Nel corso degli anni sono nati diversi farmaci a base di cannabidiolo, indicati per il trattamento di ansia, depressione, epilessia. Sono inoltre nate delle varietà povere di principi psicotropi, destinate all’uso terapeutico. Sono però ancora poco chiari eventuali effetti negativi della sostanza, specie per i più giovani.

L’uso intensivo di marijuana nell’età adulta non pare provocare particolari effetti negativi. Si è invece parlato delle conseguenze sui più giovani. Secondo alcuni studi, l’assunzione di cannabis durante l’adolescenza aumenterebbe il rischio di schizofrenia. Sarebbe inoltre legata a una diminuzione del quoziente intellettivo in età adulta.

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Malattia Niemann Pick: cos’è e come si riconosce

Sotto la definizione di malattia Niemann Pick (NPD) rientrano in realtà numerose malattie del metabolismo. Alla base delle patologie ci sono delle mutazioni genetiche specifiche, che portano al deficit di enzimi fondamentali. Le tipologie più comuni sono i tipi A, B e C.

Le Niemann Pick di tipo A e di tipo B sono legate al comportamento anomali dell'enzima acido sfingomielinasi (ASM). L’enzima si trova all’interno di zone delle cellule chiamate lisosomi e ha il compito di metabolizzare il lipido sfingomielina. Se l’enzima scarseggia, il lipido si accumula nelle cellule e ne provoca la morte. Con il tempo i danni si accumulano, con un progressivo deterioramento degli organi e delle loro funzioni.

La prognosi per il tipo A e il tipo B di Niemann Pick è molto diversa, nonostante il problema di base sia simile. Il tipo A coinvolge in prevalenza cervello e sistema nervoso, provocando la morte prima dei 4 anni di età. Il tipo B, invece, non ha quasi nessuna implicazione neurologica e consente una vita molto più lunga. Il problema maggiore di chi soffre di Niemann Pick di tipo B è l’ingrandimento degli organi, che alla lunga porta a problemi cardiaci.

Il tipo C ha una base biochimica e genetica differente dai tipi A e B. Chi ne soffre non riesce a metabolizzare il colesterolo, che si accumula nel fegato. Fallisce inoltre nel metabolizzare altri lipidi, che si concentrano nel cervello. A volte la malattia si presenta in età adulta, anche se i primi sintomi neurologici compaiono soprattutto tra i 4 e i 10 anni.

La Niemann Pick di tipo C è una malattia progressiva; più tardi si presentano i sintomi, più lenta sarà la progressione. In ogni caso, è difficile che chi ne soffre superi i 40 anni di età. Gran parte dei bambini muoiono prima dei 10 anni, alcuni arrivano ai 20 anni.

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Distrofia miotonica congenita: cos’è e quali sono i sintomi

La distrofia miotonica congenita è una malattia genetica rara che si manifesta fin dalla nascita. Provoca una forte debolezza muscolare e difficoltà respiratorie, che richiedono la rianimazione al parto. Se il neonato sopravvive, la malattia porta a ritardi nello sviluppo psicomotorio e alterazioni nello sviluppo cognitivo.

È facile confondere la distrofia miotonica congenita con altre malattie muscolari. La diagnosi richiede una visita neurologica, seguita da elettromiografia e test genetico. Con l’elettromiografia il medico valuta l’attività elettrica muscolare, così da individuare eventuali scariche miotoniche sintomo della malattia. In un secondo momento si procede con il test genetico, che consente di quantificare le triplette CTG nel gene DMPK.

Nelle persone sane le triplette sono 5-34. Coloro con 37-50 triplette sono portatori sani della malattia e possono trasmetterla ai figli. Sopra le 50 triplette la malattia comincia a manifestarsi, con sintomi sempre più gravi man mano che le ripetizioni aumentano. Alcuni soggetti presentano addirittura più di 1000 ripetizioni.

Per il momento la diagnosi prenatale è possibile tramite biopsia dei villi coriali o amniocentesi. In caso di esito positivo del test, è bene richiedere il supporto di un centro specializzato. In questo modo i medici potranno intervenire fin da subito al momento del parto. Il supporto medico è essenziale anche nel caso la madre soffra della malattia. Una debolezza del muscolo liscio uterino rende il parto più difficile ed espone al rischio di emorragia.

Non esiste un trattamento contro la distrofia miotonica congenita. È importante che chi soffre di questa malattia esegua una costante attività fisica, così da rafforzare i muscoli il più possibili. Allo stesso tempo, il malato deve evitare sforzi eccessivi, poiché sono più esposti ai danni. In caso di bisogno, i medici possono intervenire con l’impianto di un pace-maker per supportare l’attività del muscolo cardiaco.

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