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Aurora magazine

I futuri genitori dovrebbero fare un test genetico prima di avere figli?

Negli ultimi anni stanno aumentano i test genetici volti a individuare eventuali anomalie genetiche. Alcune di queste aumentano le probabilità di sviluppare un tumore. Altre non danneggiano in alcun modo il portatore, ma sono ereditarie e possono manifestarsi nei suoi figli. Se individuate prima di concepire, è possibile ricorrere alla PMA e avere comunque dei figli sani.

Quindi tutti dovrebbero fare un test genetico prima di avere figli? La risposta è difficile.

In alcuni casi, l’esigenza di un test genetico è ovvia. Ad esempio, molte donne effettuano il test BRCA anche solo per sicurezza. Magari ci sono stati diversi casi di una malattia genetica in famiglia, quindi la probabilità di essere portatori sani è alta. Altre volte si manifestano addirittura dei sintomi lievi della malattia. Purtroppo, però, alcune anomalie genetiche ereditarie non hanno precedenti in famiglia. Almeno non a memoria. Ciò rende più difficile capire quale test genetico effettuare.

I ricercatori del National Human Genome Research Institute stanno sviluppando un test genetico completo. Sfruttando il sequenziamento dell’intero genoma, si potrebbero individuare le zone più a rischio, da esaminare più da vicino. Se un test genetico del genere diventasse accessibile a tutti, aiuterebbe anche chi non conosce la propria storia familiare, come le persone adottate. Per il momento però la strada è ancora lunga.

La dottoressa Sue Richards è a capo di questo progetto. I partecipanti allo studio hanno a disposizione una lista di 700 malattie genetiche. I ricercatori chiedono loro quali vorrebbero approfondire, dopodiché effettuano il test. Molti dei partecipanti richiedono un’analisi completa del genoma, ma i risultati sono ancora complicati da gestire.

Si calcola che 1 persona su 5 presenti almeno un’anomalia genetica. Alcune di queste sono interpretabili, ma molte altre no. Inoltre ci sono delle regioni del genoma molto simili tra loro, quindi difficili da interpretare. Per il momento, quindi, un test a 360° potrebbe non essere affidabile al 100%, al contrario di quelli più circoscritti già disponibili.

Fonte: sciencemag.org

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Comprendere l’infertilità grazie agli embrioni artificiali

Per la prima volta i ricercatori hanno creato degli embrioni artificiali senza usare gameti. Hanno invece usato cellule staminali di topo, modellate in modo da creare una struttura simile a quella dei blastocisti. Lo studio non mira a sostituire il concepimento naturale. Piuttosto, gli embrioni artificiali serviranno a comprendere meglio le cause dell’infertilità.

L’autore principale dello studio è Nicolas Rivron, biologo e ingegnere presso la Maastricht University in Olanda. È stato lui a spiegare come sono passati dalle cellule staminali a un embrione nelle prime fasi di sviluppo.

I ricercatori hanno usato due tipi di cellule staminali: i trofoblasti e le cellule staminali embrionali. Dai primi deriva la placenta e dai secondi deriva l’embrione vero e proprio. Gli studiosi sono riusciti a organizzare questi due tipi di staminali, in modo che formassero un proto-embrione. A questo punto, hanno impiantato il tutto nel ventre di una cavia. Il proto-embrione si è impiantato e ha proseguito con il suo sviluppo.

Il procedimento ha permesso ai ricercatori di osservare le primissime fasi dello sviluppo embrionali. Nonostante in questa fase molte donne non sappiano di essere incinte, quello che capita loro è essenziale per il corretto impianto dell’embrione. Basta un’anomalia minima per impedire l’impianto. È quindi importante comprendere il più possibile le dinamiche che permettono all’embrione di svilupparsi correttamente.

A cosa serve capire quali anomalie impediscono l’impianto? Ad esempio, serve a migliorare le tecniche di fecondazione in vitro, rendendole più efficaci ed efficienti. Serve anche a individuare le anomalie che, se non affrontate, potrebbero trasformarsi in malattie più avanti nella vita. Le possibili applicazioni di uno studio come questo sono numerosissime e vanno dalla IVF alla contraccezione.

Fonte: medicaldaily.com

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La carenza di zinco provoca infertilità?

C’è una vasta gamma di fattori che provocano infertilità o fertilità ridotta. Secondo uno studio della Pennsylvania State University, la carenza di zinco potrebbe essere tra questi. La sostanza pare essere essenziale nei primi stadi dello sviluppo dell’ovocita. Quando manca, l’ovocita perde la capacità di dividersi e di farsi fecondare. Per questo motivo, la carenza di zinco intaccherebbe la fertilità di diversi mesi a venire.

Gran parte degli studi si concentrano sui follicoli antrali, i più numerosi e stimolati dalla ghiandola pituitaria. Lo studio in questione, invece, esamina i follicoli preantrali. Questi sono meno numerosi e ancora in via di sviluppo, quindi incapaci di rispondere ai segnali ormonali. I follicoli preantrali si sviluppano per circa 90 giorni prima di essere pronti per l’ovulazione. Durante i tre mesi del loro sviluppo, lo zinco gioca un ruolo essenziale.

I ricercatori hanno analizzato i follicoli prenatrali di alcune cavie e li hanno fatti sviluppare in vitro. Hanno comparato gli ovociti maturati in condizioni di deficit di zinco e quelli maturati in condizioni normali. Inoltre, hanno esposto entrambi i gruppi a fattori di crescita per imitare l’ovulazione. Gli ovociti maturati senza zinco sono risultati molto meno fertili e talvolta incapaci di dividersi.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che il 17% della popolazione globale soffra di carenza di zinco. I numeri indicano però i casi più gravi, lasciando da parte i casi di carenza moderata. Inoltre al loro interno ci sono sia coloro che seguono una dieta squilibrata sia coloro che soffrono di malattie particolari. Il problema è quindi molto comune e la scoperta potrebbe influenzare centinaia di donne che non riescono a concepire.

Fonte: the-aps.org

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Quando l’infertilità parte dal cervello

Un team di scienziati neozelandesi ha individuato dei fattori neurologici alla base di alcuni casi di infertilità. La chiave sta in un gruppo di circa 2000 neuroni che controlla la produzione di kisspeptina. L’ormone stimola la produzione dell’ormone luteinizzante, uno dei responsabili della fertilità maschile e femminile.

Il professor Allan Herbison, autore principale dello studio, ha studiato gli effetti dell’ormone luteinizzante. Sia livelli sempre bassi sia livelli sempre alti fanno crollare la fertilità. Ciò significa che i livelli devono salire e scendere a seconda delle necessità. Un cambiamento troppo rapido o assente danneggia i meccanismi delicati che controllano la riproduzione umana.

Il professor Dave Grattan sta studiando un altro fattore che influenza i livelli di ormone luteinizzante. Ponendosi sulla scia di Herbison, Grattan ha analizzato l’azione della prolactina. Si sa da decenni che livelli troppo alti di prolactina provocano infertilità, ma non se ne conosceva il motivo. Secondo Grattan, troppa prolactina potrebbe influenzare i livelli dell’ormone luteinizzante e sballarne il delicato equilibrio.

Un’analisi dei neuroni individuati da Herbison ha provato la presenza di recettori della prolactina. Questi recettori sono in grado di attivare o disattivare i neuroni che stimolano la produzione di ormone luteinizzante. In questo modo ne regolano i livelli a seconda delle necessità. Quando non funzionano a dovere, ciò provoca anomalie anche nei livelli dell’ormone e nella fertilità.

Le due scoperte si sono influenzate a vicenda, pur essendo progetti diversi. Entrambe potrebbero aprire la strada a possibili trattamenti per l’infertilità causata da livelli troppo alti di prolactina.

Fonte: nzherald.co.nz

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