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Aurora magazine

Sindrome di Down: la scienza punta su nuove tecniche di test prenatale non invasivo

Scoperta nel 1866 da John Langdon Down, che per la prima volta scoprì il legame tra ritardo mentale e anomalia cromosomica, la Sindrome di Down ha oggi un impatto che, grazie al sempre più importante contributo delle tecniche di diagnosi prenatale e dei diversi tipi di test prenatale non invasivo, potrà forse in futuro ridursi sempre di più.

Per la diagnosi delle principali anomalie genetiche, accanto alla più nota tecnica dell’amniocentesi, sono state recentemente sviluppate alcune interessanti tecniche alternative; in particolare, risulta molto efficace e accurato nei risultati il test prenatale non invasivo genetico basato sull’analisi del Dna fetale libero circolante nel sangue della madre. Questo tipo di test, secondo un articolo dell’anno scorso pubblicato sul “New England Journal of Medicine”, presenta attualmente un tasso di falsi positivi pari a solo allo 0,3%.

Negli ultimi anni, Diana Bianchi, una ricercatrice italiana che insegna alla Tufts University School of Medicine, ha iniziato a studiare la possibilità di impiegare le tecniche diagnostiche non invasive per contrastare gli effetti della Sindrome di Down, attraverso il trattamento prenatale di questa patologia. Mediante l’esame delle proteine contenute nelle cellule del liquido amniotico la scienziata ha scoperto che nei feti a cui è stata diagnosticata la Sindrome di Down è riscontrabile un eccessivo stress ossidativo, cioè una produzione incontrollata di molecole tossiche che danneggiano le cellule, già dal sesto mese di gravidanza. Tale caratteristica potrebbe essere studiata per poter in futuro ridurre al minimo gli effetti della Sindrome. Il gruppo di ricerca di Diana Bianchi ha già infatti portato avanti con successo alcuni test su dei topi femmina che portano in grembo topi con la Sindrome di Down, utilizzando degli antiossidanti che hanno generato nei topolini alcuni miglioramenti a livello cognitivo-comportamentale. Ovviamente si tratta solo di risultati iniziali, che dovranno essere in futuro sperimentati sulle donne, al fine di elaborare una cura prenatale per i feti affetti da sindrome di Down.

Fonte: “La Stampa”