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Latest news from the world of genetics


Sindrome del QT lungo: cos’è e come si manifesta

La sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia genetica che colpisce l’apparato cardiaco. Quando presente, aumenta il rischio di aritmie, sincopi e arresti cardiaci. Il nome deriva dal prolungamento dell’intervallo QT, un parametro specifico dell’elettrocardiogramma. La malattia si manifesta nei primi anni di vita e, se non diagnosticata, può portare alla morte.

La gravità della malattia dipende in parte dal gene coinvolto e dal tipo di mutazione. A seconda della variante, si può manifestare in età pediatrica o puberale. Inoltre, si può trasmettere con modalità autosomica dominante o recessiva. La prima è la variante più frequente e viene detta sindrome di Romano-Ward. La seconda è più rara e spesso associata a sordità; viene detta sindrome di Jervell e Lange-Nielsen. In quest’ultimo caso, entrambi i genitori sono portatori sani della malattia.

Il metodo di diagnosi più comune per la LQTS è l’elettrocardiogramma a riposo e sotto sforzo. Altri elementi fondamentali sono la storia clinica e quella familiare. I bambini a rischio soffrono di sincopi frequenti e hanno avuto casi di aritmia. Inoltre, spesso ci sono stati casi di morte improvvisa in famiglia. Dopo l’elettrocardiogramma e l’anamnesi, si procede con i test genetici per identificare la mutazione e la terapia più efficace nel caso specifico.

Ad oggi, non esiste una terapia risolutiva per la sindrome del QT lungo. I soggetti che ne soffrono devono assumere farmaci beta-bloccanti che li proteggono dalle aritmie. In gran parte dei casi, tanto basta per prevenire i sintomi. L’efficacia può però variare a seconda del difetto genetico e della gravità della malattia. Nei casi più gravi, bisogna infatti ricorrere all’impianto di un defibrillatore automatico.

Fonte: telethon.it

Il gene che rallenta il cervello e provoca l’autismo

Gli scienziati dell’Università McMaster e del Cancer Research Institute hanno scoperto nuove alterazioni genetiche collegabili all’autismo. In particolare hanno individuato alcune anomalie nel gene DIXDC1, che intaccherebbero la crescita delle cellule cerebrali e la velocità con cui comunicano tra loro. La scoperta fornisce nuovi particolari sullo sviluppo dell’autismo, che potrebbero in futuro facilitare lo sviluppo di trattamenti specifici.

In condizioni normali, la proteina DIXDC1 manda istruzioni alle cellule del cervello, dando loro l’ordine di formare nuove sinapsi nel corso dello sviluppo. In alcuni soggetti affetti da autismo, però, ricercatori hanno individuato delle anomalie genetiche che disattivano la proteina. Ciò potrebbe ostacolare il corretto sviluppo delle sinapsi, mantenendole a uno stadio immaturo e rallentando le comunicazioni tra i vari neuroni. In seguito alla scoperta, il team si è quindi messo a lavoro per cercare un modo per riattivare DIXDC1. Se quanto ipotizzato fosse corretto, si avrebbe un potenziale trattamento contro l’autismo.

Le mutazioni in DIXDC1 sono riscontrabili solo in una piccola percentuale di pazienti. Ciononostante, sono l’ennesimo indizio di un collegamento tra autismo e anomalie nello sviluppo delle sinapsi. Altri studi hanno infatti rilevato modificazioni simile a quelle riscontrate in DIXDC1. È quindi ragionevole pensare che il ripristino dell’attività delle sinapsi potrebbe alleviare i sintomi dell’autismo. In futuro si potrebbero anche elaborare strategie personalizzate, ma saranno necessari ulteriori studi.

Fonte: sciencedaily.com

Approvato nuovo farmaco contro l’atrofia muscolare spinale

Le case farmaceutiche Biogen e Ionis hanno annunciato un nuovo farmaco contro l’atrofia muscolare spinale. Questa forma di atrofia è una rara patologia genetica, che solo negli Stati Uniti colpisce circa un neonato ogni 10.000. La fase 3 del farmaco ha dato esiti positivi nel trattamento dell’atrofia muscolare spinale di tipo 2. Questo apre le porte alla sua commercializzazione per tutti coloro che ne hanno bisogno.

L’atrofia muscolare spinale è una malattia genetica degenerativa, provocata da un’anomalia del gene SMN1. Colpisce i neuroni di moto e provoca una perdita progressiva del controllo dei muscoli. È una delle principali cause di morte infantile negli Stati Uniti, ciononostante non esistono ad oggi farmaci approvati che colpiscano la malattia in sé. Gran parte dei trattamenti si limita ad affrontare i sintomi e poco può contro l’avanzare della patologia.

Molte case farmaceutiche sono da anni alla ricerca di un modo per affrontare la malattia. Diverse tra queste propongono un test del DNA di entrambi i genitori o di uno solo di loro. Idealmente il test sarebbe da effettuare prima ancora del concepimento, così da comprendere quali siano i rischi di trasmettere la malattia alla prole. Se il test rivela la presenza dell’anomalia del gene SMN1 in entrambi i genitori, allora si suggerisce un ricorso alla fecondazione in vitro. Un metodo che riduce il rischio di dare alla luce bambini malati, ma che poco può per chi soffre della malattia.

Il farmaco appena approvato è stato testato sia su pazienti pre sintomatici sia su pazienti sintomatici. I trial hanno inoltre interessato l’atrofia muscolare spinale di tipo 1, 2 e 3. Tutti e tre i tipi presentano la stessa mutazione genetica, ma si manifestano ad età diverse e sono di gravità variabile. Al momento non si può ancora parlare di una cura, ma comunque di un modo per allungare l’aspettativa di vita di tanti bambini.

Fonte: medcitynews.com

I test del DNA contro il tumore all’ovaio: la novità della Città della Salute

La Città della Salute di Torino è diventata il centro di un nuovo capitolo nella lotta contro il tumore all’ovaio. La struttura proporrà infatti un nuovo protocollo di test del DNA, al fine di individuare l’anomalia che aumenta il rischio di sviluppare la malattia. L’iniziativa consentirà di erogare cure più specifiche e mirate a quante soffrono della malattia o sono particolarmente a rischio.

Si calcola che il 10% delle donne affetto da tumore alle ovaie presenti una specifica anomalie genetica. Si tratta di una mutazione dei geni BRCA, che renderebbe più probabile l’insorgere del tumore. Negli ultimi anni i ricercatori hanno inoltre messo a punto un trattamento specifico per questa variante della malattia. Individuando la presenza o meno della mutazione, è quindi possibile decidere se ricorrere o no a questo particolare trattamento, definito PARP Inibitore. Il farmaco, infatti, è efficace solo in questi casi.

La Rete Oncologica Piemonte e Valle d’Aosta ha proposto il nuovo protocollo al fine di individuare le donne sulle quali usare il PARP Inibitore. L’obiettivo è far convergere i circa 300 casi all’anno di tumore all’ovaio nella Città della Salute di Torino. Qui lo staff della professoressa Barbara Pasini si occuperà di eseguire gli appositi test del DNA. In questo modo i medici potranno individuare la cura migliore, senza sprecare né tempo né risorse.

Fonte: lastampa.it

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